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Alla fine l'avete capito o no, che Isabelle Huppert vuol farci smettere di guardarla?! L'evento ‘Bérénice’ di Castellucci e quella minuscola retorica

Romeo Castellucci in Triennale (foto di Francesco Raffaelli)

 Non sarà facile ricamare qualcosa a proposito di 'Bérénice Da Jean Racine', titolo ufficiale così stampigliato sul biglietto di Triennale Milano, 'Teatro dell’Arte - Sala Grande - Viale Alemagna 6 - Milano', a cui segue un’indicazione in neretto, tutta insolitamente veritiera: 'Data evento: 6/4/2024 19.30'.

 Ci mancava solo la minuscola, quanto mai strana perché si parla dell’Evento teatrale per eccellenza di questo primo scorcio del ’24. Un Evento e anche un investimento, per dirla in termini di valore, di quelli davvero considerevoli, non proprio da turbo capitalismo finanziario ma poco ci manca.

Entrando in sala si notano persino, oltre alle maschere, delle gentili eleganti signore che consegnano agli spettatori i cartoncini freschi di stampa con la sinossi di 'Bérénice', come se non bastasse il bel libretto di sala, tutto ovviamente bilingue, italiano e inglese.

La minuscola sull'evento sarà stata, dunque, un tocco d’understatement: ma come diavolo si direbbe in francese? Il traduttore automatico deepL suggerisce ‘litote’, addirittura, ma uscendo dalle figure retoriche ci sono anche le alternative ‘sous-entendu’, ‘euphémisme’ e ‘sous-estimation’, che sembra più pertinente nel caso del nostro biglietto.

Tra l'altro, mai tassellino fu più agognato, o quasi, visto il sold-out immediato, e pure la consistente coda di persone in lista d’attesa, con lancio di sguardi di odio per chi arriva all’ultimo minuto invece di rinunciare. 

 E adesso, smaltite le prime reazioni post-rappresentazione e stimolati dalla visione, si può ben dire che in fondo questa stramaledetta epica intrapresa del nuovo spettacolo di Romeo Castellucci sia tutta una storia di ‘sous-estimation’, appunto.

 Non ci si può sottrarre a questa trappola, oltretutto, parlando di ‘Bérénice’ di Racine, che è considerata dagli studiosi una vera e propria ‘tragedia del linguaggio’, come puntualmente s’evince anche solo dallo strepitoso finale di questa versione.

 Così questo gioco dello statement costringe il cronista a volare basso basso, sotto, molto sotto. E, forse per suggestione, come in un flusso di autocoscienza, ne viene fuori una sorta di ‘vorrei/non vorrei’ a tema, in ordine sparso.

Di rigore cominciare con una sorpresa, visto che Castellucci, in apertura di ‘Bérénice’, tra il quasi buio e i fumi, spara grandi scritte luminose sugli elementi chimici che compongono il corpo umano.

Isabelle Huppert in una scena della nuova 'Bérénice' in Triennale Teatro (foto di Alex Majoli)


 Vorrei essere prima di tutto Laura Cappelle, la giornalista che ha trovato subito dopo la prima parigina, il 6 marzo, le tre parole bell'e pronte per il titolo del commento sul ‘New York Times’: ‘Crushed by Isabelle Huppert’s Star Power’. A rimanere ‘schiacciata’ è la versione di Castellucci, più che il classico di Jean Racine: ‘is all about the lead performer - and that’s it’, è tutta intorno all’interprete principale, e basta. Competente e fortunata qual’é - come si evince anche solo dalle foto - ‘La.Cappelle’ scrive di teatro, danza e arti varie con un sorprendente piglio severo, e ha appena mezzo stroncato anche la nuova ‘Amleta’ di Christiane Jatahy

  

 Non vorrei essere, in effetti, nessuno dei Castellucci’s vari che hanno aiutato il Maestro a confezionare uno spettacolo di questo livello, con il timbro riconoscibile della Societas Raffaello Sanzio. Il ‘vettore Huppert’ trascina l’operazione e sovrasta tutto rendendo in qualche modo ornamentali le trovate d’impatto, i suoni, persino le luci così artistiche o le dissacrazioni rituali; le stupefacenti sculture di scena e le automazioni di Istvan Zimmermann e Giovanna Amoroso, e pure le musiche di Scott Gibons. Addirittura passano quasi inosservati i corpi pur inquietanti dei permorfer Cheikh Kébé e Giovanni Manzo. E, a proposito dei luccichii di ricchezza, ci sarebbero anche i costumi ‘art-archi-cult’ di Iris Van Herpen, fatti apposta dalla giovane stilista...

 

 Vorrei essere Castellucci, dato per scontato che non sarebbe affatto facile: ma non perché sia un guru o costruisca Eventi teatrali di stampo prettamente artistico e riesca sempre a fare centro nell'eco mediatica. Sarebbe bello essere Castellucci anche solo perché stasera, come sempre - e come dovrebbero fare tutti gli autori e i registi nel teatro -, se ne sta lì attento a seguire da vicino ogni dettaglio, si espone tranquillamente alle reazioni del pubblico, disposto ad accettare tutto. Alla fine ascolta i complimenti e pure le obiezioni, non fa una piega per i rimproveri e i pochi ‘buuu’. Sorriderebbe di gusto anche se potesse ascoltare il tipaccio pur vestito bene che risale le scale maledicendolo ad alta voce: ’sono ormai più di trent’anni che questo ci frega con le stesse quattro cose’. 


 Non vorrei essere Isabelle Huppert, tanto peraltro sarebbe impossibile, e quasi per tutti e tutte. 72 anni, un’attrice che non si sa nemmeno più quali aggettivi elogiativi possa meritare ancora, una che ha fatto esaurire i superlativi. E’ l’unica persona che si può considerare ormai addirittura ‘un sottogenere del teatro francese’, come dice ancora ‘La.Cappelle’. Passa da un’interpretazione memorabile all’altra, nelle mani di registi-mito, sempre sul limite estremo, soprattutto quando gioca in casa e a dispetto delle tradizioni: ancora si parla delle sue ‘Phèdre(s)’, caleidoscopico e provocatorio impasto di Racine con Wajdi Mouawad, Sarah Kane e J.M. Coetzee, firmato nel 2016 dal polacco Krzysztof Warlikowski


 Vorrei essere comunque così competente da poter individuare qualche altro nome di attrice vivente e francofona, che avrebbe potuto mangiarsi in un sol boccone di novanta minuti pure questa ‘Bérénice’ Castellucci-style, con una prova altrettanto di prim’ordine, indimenticabile. Una che si può rivolgere a se stessa, mentre recita la regina raciniana, con il suo vero nome, Isabelle, almeno una volta. E che cosa si può mai dire ancora di quei minuti finali, la vera pennellata geniale di questa versione, quando la Huppert incespica nelle parole e poi esce di scena in un crescendo di ‘Ne me regarde plus’?


 Non vorrei essere lo spettatore al centro della fila G, Maurizio Cattelan, che peraltro segue quasi tutte le proposte di FOG in Triennale, a volte pure vestito in tono e 'trés chic' come qui usano in tanti (per Bérénice' s'è presentato in platea anche un tipo con gonna e abito bianco country quasi da sposa). Che cosa avrà pensato, dentro di sé, l’artista dei piccioni e della banana e del dito medio gigante, dinanzi alla complessità della ricerca formale di Castellucci? E della sua impossibile rincorsa post-post-moderna al teatro come ‘arte totale’ di wagneriana evocazione? O dell’effettivo risultato dell’intenzione ‘crudele’ alla Antonin Artaud, che guru Romeo non manca mai di voler perseguire (stavolta pure con citazione da ‘Il teatro e il suo doppio’ sparata sulle tende)? 

 

 Vorrei essere un super-spettatore come le solite vicine intelligenti che seguono diligentemente ogni passaggio della rappresentazione, l’una senza mai dar segni di particolare partecipazione (potrebbe/vorrebbe essere la cugina italiana di Laura Cappelle) e l’altra commentando soltanto all'uscita, su richiesta: ‘quando va in scena l’Huppert, tutto il resto non esiste. Mi devo ancora riprendere dalla serata in cui l’ho vista interpretare ‘Giorni felici’ di Beckett per Bob Wilson…’

 

 Non vorrei essere un dotto e titolato critico francese, di quelli che - e sono stati tanti - hanno storto la bocca per questo Racine ‘incompris et déformée’. Per una versione, oltrettutto, che tanto si presenta eretica rispetto al canone dei cinque atti originali, quanto in realtà non risulta poi scandalosa. Ha tenuto banco, sui giornali parigini, anche una lunga discussione seguita all’episodio di contestazione, da parte di un solo spettatore, proprio del monologo finale. N.B.: un precedente che fu considerato altrettanto sacrilego fu la ‘Bérénice’ del grande regista tedesco Klaus-Michael Grüber nel 1984, con un’indimenticabile Ludmila Mikaël. Lo stesso Castellucci nelle presentazioni ha evocato quello spettacolo come un autentico capolavoro e gli eredi dei criticoni di ieri, adesso, in Francia, lo considerano una sintesi magistrale dell’essenza stessa del teatro.  


 Vorrei essere il direttore di Triennale Teatro, ideatore e curatore del pregiatissimo festival FOG Umberto Angelini, che non avrà nemmeno festeggiato più di tanto la prima italiana così glamour - con autorità varie di contorno - di ‘Bérénice’: deve pur cominciare a pensare al dopo. Il rapporto con Castellucci 'Grand Invité' si conclude nel ’24, ci sarà tempo forse per un altro evento, magari soltanto una piccola performance. Sarà, in sostanza, anche una sfida oggettiva sul ‘dopo’: il caro vecchio post-drammatico va archiviato, nel mondo di oggi, e forse comincia a mostrare i segni dell'età anche quel teatro artistico performativo internazionale che qui ha incontrato un pubblico neo-borghese di riferimento in rara totale sintonia.

In ogni caso, Angelini sarà lì che pensa a come evitare che una La.Cappelle possa un giorno scrivere di lui: ‘Crushed by Castellucci’s soft power’… 

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