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Altro che 'Giulia mia Cara, Giorgio': si sono risvegliati 'Elvira' e il fantasma della passione teatrale di Strehler...

Giulia Lazzarini legge 'Gorla fermata Gorla' al Teatro della Cooperativa (foto Wanda Perrone Capano)
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DOPPIO GRANDE SALTO ALL'INDIETRO

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 Per mettere subito le mani avanti, e non dare adito ai soliti sospetti, bisogna partire da quell’unico applauso che, lunedì 16 dicembre, nella sala storica del Piccolo Teatro, in via Rovello a Milano, ha interrotto il film che veniva presentato, ‘Giulia mia cara! Giorgio’ con la Lazzarini impegnata sul grande schermo nel racconto del ‘suo’ Strehler.

 Sì, certo, prima e dopo la proiezione è stata festeggiata a dovere la piccola-e-immensa Giulia Lazzarini, del resto eravamo quasi tutti lì per lei e bastava sentire i commenti ammirati all’uscita. Anche la regista autrice del documentario, Maria Mauti, ha ricevuto il giusto consenso, soprattutto dagli amici e collaboratori presenti nelle prime file.

 Ma quei battimani ‘a scena aperta’ - per così dire, trattandosi di un film - sono partiti spontaneamente dai vari settori del pubblico, accompagnati da più di un ‘Bravooo!’ e qualche ‘Vero!’ e Giusto!’, per un singolare monito di Giorgio Strehler.

Un’impennata retorica che fa parte di un prezioso ritaglio di repertorio del 1986, relativo alla sua ‘Elvira, o della passione teatrale’: due volte sua, perché Strehler s’impegnò personalmente e insolitamente, ormai più che sessantacinquenne, anche in una prova di attore. Con questa scelta l’acclamato fondatore del Teatro d’Europa volle inaugurare la nuova sala cult milanese del Teatro Studio

 E’ un momento singolare, il brano di repertorio in questione. Il maestro leonino della scena smette i panni molto impettiti che è solito indossare anche quando dirige le prove e fa vedere agli attori che cosa devono fare, il che era appunto nel ruolo stesso che interpretava in ‘Elvira’.

E per un attimo, alla fine, Strehler mostra di volersi soffermare semplicemente come direttore del teatro, per spiegare un po’ il senso della riproposta di quelle celebri sette lezioni che Louis Jouvet tenne nel 1940, a porte chiuse, al Conservatoire d’Art Dramatique di Parigi, nella Francia occupata dai nazisti, per preparare, insieme all’allieva prediletta Claudia, l’intensa scena sesta del IV atto del 'Don Giovanni' di Molière.

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UN TARTUFO CHE NON PERDONA

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 Solo per accenni, chi è Jouvet e perché ricompare così. Tra i più importanti protagonisti del teatro e del cinema francesi di metà Novecento, è stato uno dei modelli giovanili di riferimento dello stesso Strehler, con l’amatissimo Max Reinhardt e ben prima di Bertolt Brecht. Inoltre, dopo il 1947, quando Jouvet tornerà anche come direttore al suo Théâtre de l'Athénée di Parigi, quest'attore-regista-professore di prima grandezza diventa un interlocutore ‘straordinario e indimenticabile’ di Paolo Grassi, proprio negli anni della fondazione e dell’avvio del Piccolo. 

 Gli aggettivi relativi al legame e al sodalizio Grassi-Jouvet vengono da un toccante articolo che il padre fondatore del teatro pubblico di via Rovello scrisse in occasione della scomparsa del grande francese, nel 1951. Grassi ricorda prima di tutto le repliche che aveva voluto organizzare a Milano de ‘L'École des femmes’ di Jouvet, il suo vero cavallo di battaglia, considerato l’adattamento  molieriano più importante in epoca moderna, che ha macinato 675 rappresentazioni dal 1936 al 1951, saltando giusto quei 4-5 anni d’esilio volontario del protagonista in Sudamerica durante la Seconda Guerra. 

 Grassi rievoca poi l’ultimo incontro a Parigi, in camerino, alla fine dell’ennesima replica francese della stessa École, con Jouvet malinconico che annunciava all’amico milanese di volersi dedicare alla messa in scena di un romanzo di Graham Greene, ovvero di abbandonare clamorosamente l’amatissimo Molière.

Lamentava senza mezzi termini l’improvvisa ferocia della critica nei suoi confronti (‘ils m’engeulent’, sic!) per aver recitato il ‘Tartuffe’. Pochi mesi dopo Jouvet - ricorda ancora Grassi - al ritorno da una tournée in Canada, coronata da un’epica e trionfale rappresentazione a Montreal de ‘L'École des femmes’, con tanto di registrazione di un disco ad hoc, morì d’infarto durante le prime prove de ‘Il potere e la gloria’. 

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QUELL'ADDIO SOFFERTO AI SOCIALISTI

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 Bisognerebbe anche riconsiderare meglio il contesto, quarant’anni dopo, del Piccolo nella seconda metà degli anni Ottanta, con il mondo occidentale ormai avviato al modello unico neo-liberista. In Italia è alle ultime battute il primo governo in cui la Dc aveva ceduto la posizione di premier al leader socialista Bettino Craxi e nella Milano ormai quasi ‘da bere’ si consuma la vigilia del cambio di sindaco. Si vocifera persino di una possibile ridefinizione della maggioranza locale, per rendere omogenea l’amministrazione milanese alla linea nazionale di alleanza con la Dc e i piccoli partiti moderati di centro. 

 Sta finendo la stagione di Carlo Tognoli, che è stato il referente politico primario di Strehler direttore del Piccolo e questo in qualche modo contribuisce alla maturazione della storica rottura del legame con i socialisti. Strehler è addirittura a poche settimane dall’elezione come senatore della Sinistra Indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano, sono ormai pessimi i suoi rapporti con l’area moderata e riformista solidamente controllata da Craxi, che pure da giovane era stato vicino a Paolo Grassi, socialista militante di spicco, e al nascente teatro di Strehler. 

 Una rottura ancor più bruciante, perché tutto sommato repentina e di peso notevole, se si considera quanto il nostro regista fosse stimato e sostenuto dai socialisti e dal Presidente francesi, tanto che tre anni prima Craxi stesso aveva addirittura voluto cedere il suo seggio di parlamentare europeo allo stesso Strehler, risultato primo dei non eletti nel PSI. 

 Ma la storia politica del teatro e del Piccolo in particolare, soprattutto nell’arco temporale dalla contestazione '68-'69 al finire degli anni Novanta, con l’avvento di Luca Ronconi e la direzione di Sergio Escobar, meriterebbero un approfondimento migliore, e certo questa svolta senatoriale di Strehler non sarà un episodio da derubricare in nota. 

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AVANTI GIORGIO, ALLA RISCOSSA...

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 Oltre al periodo storico va valutato il particolare momento di seconda maturità artistica e umana, in cui Strehler sceglie ‘Elvira’ di Jouvet. E’ lui stesso ad approfittarne per voltare lo sguardo indietro, a quegli anni della Seconda Guerra Mondiale decisivi per la sua formazione ma anche proprio per la maturazione del forte impegno politico-culturale del suo lavoro teatrale: ‘Ho vissuto come tanti della mia generazione, resistendo, per quanto possibile, alla demenza, alle atrocità che diventavano sempre più universali’. 

 In poche parole, poi, di quell’indimenticabile spezzone di repertorio che il film della Mauti sulla Lazzarini riporta all’attenzione, Strehler spiega che, aldilà del valore relativo al teatro, Elvira fa parte di quelle opere che ‘sono diventate, e lo erano già allora, il simbolo di una lotta inconciliabile per la difesa di alcuni valori dello spirito, della ragione dell’uomo contro la barbarie, la follia e la crudeltà che stavano invadendo, con i loro mostri, l’Europa e il mondo’. 

 E dopo una canonica pausa di quelle che amava, re Giorgio torna in cattedra salendo di tono retorico per aggiungere con tutte le vocali-chiave bene enfatizzate: ‘Quei mostri però, sono sempre pronti ad essere partoriti oggi, domani come ieri, dal ventre fecondo dell’intolleranza, della tirannia, dell’ingiustizia e della mancanza d’amore’.

 Qualcuno in sala, mentre applaudiva sonoramente, la sera del 19 dicembre 2024, la voce del fondatore che riecheggiava nel suo Piccolo, avrà pensato pure all’Arlecchino sanguinante, che faceva più o meno la stessa sparata antifascista, esplicitandola al presente, proprio lì, nel teatro intitolato a Grassi, un anno fa: un piccolo graffio d'autore costato al francese Pascal Rambert la brusca interruzione del trittico già avviato di ‘Prima’, ‘Durante’ e ‘Dopo’ (a proposito, ci sarai mai un ‘Dopo’?).

Molti dei sinceri post-consenzienti all’appello alla vigilanza contro i mostri della storia, si saranno ricordati del flashmob davanti all’ingresso contro la nomina di Geronimo La Russa nel consiglio d’amministrazione. E i più dei presenti - tutti buoni borghesi in cachemire, non c’erano certo gli Antifa da corteo del sabato con la kefiah - avranno direttamente pensato al nugolo di possibili ‘nuovi mostri’, e Orban e Trump e Milej e autocrati vari, per non dire subito Meloni e Salvini…

 Et voilà, c’était bien et bon! Quasi subito la platea ‘strehlerista e di sinistra’, ha lasciato educatamente spazio al seguito del film ‘Giulia Mia Cara, Giorgio’.

'Il giardino dei ciliegi', ammirata regia di Strehler 1973-74 (Foto Ciminaghi/Archivio Piccolo Teatro di Milano)
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UNA VENERAZIONE D'IMBARAZZO

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 Il Piccolo è forse il teatro che venera - e insieme naturalmente e inevitabilmente tradisce - più di ogni altro il fondatore, di certo un caso unico per quel che riguarda la scena contemporanea.

Sì, è pur vero che, per stare solo al Jouvet di ‘Elvira’, l'Athénée ha poi voluto aggiungere il suo cognome nell’insegna, ma parliamo ancora di anni Cinquanta del Novecento. Non è che nella Parigi di oggi, entrando al des Bouffes du Nord, ci s’imbatta nel bronzo di Peter Brook o che spesso e volentieri si affannino in celebrazioni del suo genio.

 (Peraltro lo stesso Brook, in occasione dell’ultimo omaggio del Piccolo ‘Strehler 100’, ha rilasciato un’intervista in cui affermava che l’amico Giorgio era stato un regista tecnicamente superiore a tutti, migliore e ferrato come pochi, per esempio, sulle luci).

  Per non esagerare con gli esempi, basta un altro. Il Laboratorium di Opole oggi è un pub, al fondatore Jerzy Grotowski hanno giusto dedicato la piazzetta di fronte, e un piccolo centro culturale, ma peraltro era il guru del 'teatro povero' e una memoria coerentemente essenziale ci sta.

 Detto questo, resta un po’ sempre l’idea che il maestro sia stato così tanto venerato quanto la sua lezione, politica e teatrale, si sia di fatto smarrita nell’aria (forse già durante la non felice fase finale della sua stessa ‘egemonia’, per non dire banalmente della fase succedanea di Ronconi o ancora dopo). 

 Oggi come oggi, poi, tra i teatranti praticanti anche di primissimo livello, Strehler è un nome che spaventa, soprattutto se riferito alla sala teatrale, gigantesca e con un’acustica impossibile, che gli è stata dedicata, in largo Greppi (Antonio Greppi è stato il primo sindaco socialista di Milano dopo il fascismo e anche il padre politico del Piccolo, oltre che del rilancio della Scala).

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SE PERSINO DODIN PROVA SOGGEZIONE

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 Nell’epoca d’oro Strehler non si faceva certo il problema di essere valutato in un confronto ideale, per esempio, con Luchino Visconti, che lo stesso Grassi considerava il precedente Regista per eccellenza del teatro artistico italiano, il modello da superare anche per l’amico Giorgio.

Nel cataclisma post-68, per dire ancora di un altro caso, Marco Bellocchio non manifestò nessun complesso d’inferiorità verso Strehler quando entrò a furor di popolo - pardon, di ‘movimento’ - in via Rovello, dichiarando pubblicamente di destinare il compenso per le sue regie alle organizzazioni fondate dai vari Mario Capanna, che poi volevano abbattere e collettivizzare le istituzioni tutte, teatro pubblico compreso. 

 Ma oggi, se si potesse mettere un microfono per ascoltare certi notturni dopocena o gli incontri casuali tra uomini di teatro d’alto livello, che siano i decani che Strehler l’hanno conosciuto bene, i primattori più considerati delle generazioni dopo o i registi di maggior talento, i pochissimi che a volte vengono liquidati con il paragone più impossibile, come emuli di 're Giorgio', invariabilmente si potrebbe registrare il momento in cui le conversazioni cascano sul tema sempre caldo e molto sentito del Piccolo.  

 Per sentirsi all’altezza di un palcoscenico di Strehler, ci vuole una bella dose di presunzione, figurarsi poi per essere considerati tali dal pubblico. E' vero, qualche volta Ronconi stesso può aver eguagliato e sorpassato il grande modello, ma pur sempre con proposte più difficili, non così 'per tutti', come furono i grandi successi di Strehler.

Perciò ancora oggi al Piccolo ci sono prove quasi assolutamente insormontabili, per esempio il ‘Giardino dei ciliegi’: di recente Leonardo Lidi non avrebbe nemmeno avuto bisogno di ascoltare i commenti delle ‘strehleriste’ doc, alla fine delle rappresentazioni milanesi del suo bizzarro rimodernamento dei Ciliegi, tanto le facce molto perplesse le poteva già immaginare.

 Persino un maestro del livello di Lev Dodin, come si è ripresentato da San Pietroburgo al Piccolo Strehler, verso la fine del 2017, per riproporre il suo ultimo meraviglioso ‘Giardino’ in russo, si è premurato di spiegare a mezzo stampa che il bianco dominante di questo allestimento era un omaggio alla versione del grande amico italiano.

E sottolineò pure che, a suo tempo, quando Dodin venne a Milano a inizio anni Settanta con un primo allestimento dello stesso spettacolo, virato invece ai colori scuri e al nero, provò un certo imbarazzo: ‘un giorno, mentre provavamo qui al Piccolo, dal buio della platea sbucò fuori Giorgio che mi disse: 'ma che strano, il mio Giardino è tutto bianco, il tuo è tutto nero!' E scomparve subito. Ecco, la sua è una delle interpretazioni che porto nel cuore’.

La citazione

 Si può fare il teatro senza pensare al teatro, senza cercare di capire ‘troppo’ del teatro: l’intelligenza per un attore è cercare di sentire molto alto, come un albero che sta crescendo… Un albero non pensa certo a crescere: cresce e basta.

di Giorgio Strehler (1986?, da 'Giulia mia cara, Giorgio')
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QUANTA SOFFERENZA PER ARIEL

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 Il documentario di Maria Mauti è, di fatto, anche un omaggio postumo e commosso alla grandezza del mestiere del teatro, di cui Strehler è stato l’incarnazione nel dopoguerra e la Lazzarini l’esemplare strumento. Tutto da gustare, salvo forse qualche dissolvenza di troppo sul preziosissimo repertorio. 

 Ma vale il prezzo del biglietto anche soltanto la ricostruzione, attraverso il carteggio privato e la documentazione relativa, del difficile e doloroso (per la Lazzarini) impegno della celeberrima ‘Tempesta’ con Ariel-Giulia volante, che inaugurò la stagione del Teatro d’Europa, lasciando tutti a bocca aperta per le trovate strehleriane e la magnifica prova, anche da un punto di vista vocale, del suo folletto.  

  E’ tutto un crescendo, il film della Mauti, almeno fino a quel momento toccante, che sarebbe stato il finale perfetto, con l’anziano autista di re Giorgio che porta in giro sulla vecchia utilitaria Fiat bianca la cara Giulia mentre rilegge la breve lettera con le ultime volontà di Strehler, per una Milano notturna e limpidamente spettrale.

 Le cartoline dai vari teatri milanesi che poi concludono il film, oltretutto giustificate in quanto riferite a ‘luoghi di vera e propria resistenza’, stando alle parole della stessa Mauti, sarebbero giusto un bel canovaccio per ‘Libero’ o ‘La verità’: se volessero armarsi della ‘motosega argentina’ anti-statalista, potrebbero documentare la massa di contributi pubblici, certamente sproporzionata, che fagocitano quelle sei-sette istituzioni milanesi maggiori e più polversoe, 'resistenti' sì, ma soprattutto al rinnovamento.

Al confronto, senza nemmeno allargare il tema alle compagnie, portano a casa un’inezia di contributi ministeriali certe pregevolissime realtà di provincia, come per esempio I Teatri di Reggio Emilia, dove il direttore Paolo Cantù - lombardo, come da cognome - è in grado di proporre programmazioni degne del miglior standard europeo con il Festival aperto.

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'MA COME CAZZO FA AD ESSERE COSI'...'

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 A rendere poi imperdibile la visione del documentario di Maria Mauti è la lezione della grazia di Giulia Lazzarini, attrice superba e umilissima, donna di gran forza e persona capace di poetici imbarazzi, ben nota a chi la segue anche in questi anni.

La stessa Mauti ha potuto giovarsi della presenza di Giulia come narratrice nel precedente film documentario ‘L'amatore’, sul grande architetto milanese Piero Portaluppi, e ha poi saputo cogliere bene l'occasione di questo rapporto.

Ma gli esempi recenti che ciascun spettatore appassionato può citare sono tanti e diversi, a partire dalla partecipazione della Lazzarini a ‘Mia madre’ di Nanni Moretti, sbalorditiva e stralodata eppur in punta di piedi, come sempre. E giù giù fino a ‘Gorla fermata Gorla’ di Renato Sarti e all’ultima lettura pubblica delle poesie sulla Grande Età di Vivian Lamarque.

 Del resto basta il confronto, che dal documentario della Mauti viene spontaneo fare, tra lo stile di recitazione ‘un passo di lato’ dell’attrice diletta e quello, buffissimo nei momenti di pomposità, del maestro regista, sempre un po’ troppo tale, come si usava una volta, impettito e pieno di sé.

Per ricordare infine con il massimo rispetto che quel mito d’un teatrante appassionato qual era, si sedeva poi soddisfatto in poltrona per ammirare, come uno spettatore qualunque, le miglior prove delle sue Giulia e dei suoi più capaci. Si narra che alla fine della prima generale del suo ‘Arlecchino’ con Ferruccio Soleri, Strehler si chiese ad alta voce, con una punta d’invidia per l’eclettismo e la fisicità naturali del suo attore: ‘ma come cazzo è possibile, come fa a essere così!?!’ 

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