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Arlecchino, Arlecchino servidor de do padroni, o solo del pubblico?

No, non è un teatro per vecchi, almeno per una sera (l’ultima prima della pausa di Natale, 2022) il Piccolo Grassi di Milano, in via Rovello: stipato di ragazzi festanti e compiaciuti, che ridono, commentano, applaudono e fin quasi s’esaltano dinanzi alla disarmante e perfetta semplicità della magia teatrale di ‘Arlecchino, servitore di due padroni’, come se fosse la prima volta. Parliamo di uno spettacolo del 1947, il primo e il più fortunato firmato da Giorgio Strehler, che ogni anno si replica, con uguale successo, e ora si può vedere nella versione cosiddetta dell’Ermitage, perché si tratta di un riadattamento firmato dal mitico Arlecchino 1963-2018 Ferruccio Soleri, in occasione di una tournée russa. Oggi è un altrettanto straordinario Enrico Bonavera a vestire i panni con la maschera felina del personaggio ‘goldoniano’ più celebre. Tanto per dire, alla fine del terzo atto, quando Arlecchino-Bonavera si butta in platea e corre in giro, provando a nascondersi sulla prima poltrona libera, il 22 dicembre s’è accomodato un attimo accanto al posto 11 in fila 10, e così al fortunato dramaholic seduto proprio lì è capitato di condividere qualche secondo di contatto fisico con un attore che nell’87 faceva già il Brighella, e quindi non è più un ragazzino, e di notare come incredibilmente non mostrava nessun cenno di affanno e non sembrava nemmeno sudato. D’accordo, ci sono pure due intervalli, ma ci vuole davvero ‘un fisico bestiale’ anche solo per la strepitosa gag con il balletto dei piatti di portata e il buffo budino finale.

Così, quando alla fine del grande rito degli applausi, Arlecchino si toglie finalmente la maschera, aprendosi al sorriso a viso aperto e soddisfattissimo di Bonavera, viene puntualmente da alzarsi per la standing ovation. Eppure gli urrah, gli evviva e i battimani, soprattutto dei tanti ragazzi presenti, compresa una scolaresca in divisa da istituto alberghiero, arrivata apposta da Novara, si distribuiscono quasi equamente per tutto il cast: per esempio, le tre super-entusiaste ragazze dietro in fila 11, che hanno partecipato quasi alla rappresentazione come tifosi alla partita dell’anno, si sono innamorate addirittura del personaggio del vecchio suggeritore, che pure ha poche battute ma governa con grazia il rito dell’accensione e dello spegnimento delle candele.       

Sarebbero tante le osservazioni che vengono in mente dopo ‘Arlecchino 2022’, in questo teatro dove qualcuno ricorda di aver visto personalmente Giorgio Strehler reggere da solo il palcoscenico, il 12 settembre del 1981, per commemorare Eugenio Montale appena scomparso… E dire che, forse nessuno dei meravigliati giovani e giovanissimi spettatori, sa quasi nemmeno quale regista e protagonista della cultura italiana sia stato Strehler. Se ne sarebbe adontato non poco l’interessato, con il carattere che aveva, permaloso com’era, in tutto e per tutto sopra le righe. Pensare che in uno degli ultimi libretti di scena scritti per le varie edizioni di ‘Arlecchino’, Strehler ha voluto ricordare piccato che qualche critico aveva avuto da ridire anche sulla scelta di non usare il titolo originale di Carlo Goldoni, che sarebbe sic et simpliciter l’attuale sottotitolo, ossia ‘Il servitore dei due padroni’,  con protagonista Truffaldino, personaggio derivato dalla notissima maschera con il costume a losanghe multicolori della commedia dell’arte. Già, è diventato ‘Arlecchino’ per via di questo spettacolo del Piccolo, e per l’egemonia culturale che Strehler ha grandemente esercitato negli anni. Senza troppo andare per il sottile, citando solo il più che autorevole Jan Kott, che vide e recensì una delle prime edizioni strehleriane, la chiave dello spettacolo è nell’operazione di riportare in auge, in certo qual modo, la commedia dell’arte che Goldoni - cui si deve la definizione stessa di quello stile di recitazione italiano così popolare -, ha invece inteso con forza superare. Del resto, se Goldoni ha poi voluto stendere compiutamente, anni dopo il primo canovaccio, il testo stesso del Servitore, è stato proprio ai fini di quella ‘Riforma del Teatro Comico’ che, come dice il titolo del suo celebre saggio, perseguiva con convinzione. Sia quel che sia, alla fine funziona tuttora in modo straordinario questa trasposizione e reinterpretazione strehleriana, che gli storici più accorti dicono ispirata a un precedente berlinese di Max Reinhardt (1924), e che, tra l’altro comprende il taglio integrale dell’ascendenza bergamasca di Truffaldino-Arlecchino, tocco puro alla Goldoni, che amava infierire sui tipi umani ‘delle valli di Bergum’ (invero ben sottolineato da altre edizioni contemporanee, per esempio quella che ha rivelato a Londra il talento di Marcello Magni).

Come scrisse un intellettuale tutt'altro che conformista, Nicola Chiaromonte, quasi all’inizio della sua stroncatura del kolossal strehleriano su ‘Galileo’ (in ‘Il Mondo’, 24 marzo 1964; ora nel Meridiano 2021 ‘Lo spettatore critico’): ‘si può dissentire totalmente dallo stile di Strehler(…) ma non si può non rendere omaggio alla sua coerenza, alla sua dignità e, principalissimo pregio in questo paese d’improvvisatori, alla cura scrupolosa di ogni dettaglio che lo contraddistinguono’. Osservazione quanto mai ficcante, dal momento che in Strehler lo stile, ovvero la forma, è stato il cuore del suo modo d’interpretare il teatro. 

Oggi, in questa magnifica undicesima edizione riveduta e corretta da Soleri, egregiamente retta da Bonavera e da un’ottima compagnia, il sempiterno e divertentissimo ‘Arlecchino’ sembra aver guadagnato qualche riferimento in più al teatro stesso, con una serie di battute taglienti a tema, che non a caso suscitano l’ilarità del pubblico dei più giovani. Sono ricorrenti le prese in giro delle drammatizzazioni esagerate di oggi, e se piacciono tanto vorrà pur dire qualcosa, peccato che chi gestisce i teatri non ne tenga conto, per non parlare degli applausi a scena aperta per la tiritera pre-femminista di Smeraldina e pure per una graffiata di Balanzone allusiva di una certa ‘gayezza’ modaiola.

È banale ripeterlo, ma questa non è altro che una straordinaria lezione di teatro. Nel senso che lo è, di per sé, il testo originale di Goldoni, un autore che sa essere in qualche modo sempre contemporaneo, quasi come Shakespeare; e lo è pure questo spettacolo capolavoro comico di teatro elementare nel perfetto stile alla Strehler. Tocca di aggiungere, non per retorica, che altrettante lezioni di teatro sono venute dalle settantacinquennali ripetizioni dello stesso spettacolo del Piccolo, e proprio ancora da quest’ultima del 22/12 del 2022, s’intende con il contributo essenziale degli spettatori, di cui Arlecchino stesso dichiara di voler essere infine 'servidor'. 

Basta così, con tanti auguri e mille scuse a tutti, anche perché, come voleva Goldoni, ‘questa commedia non contempla proprio il merito della critica, della morale e della istruzione’, ovvero ‘Arlecchino’ deve risultare semplicemente, come ha lasciato scritto Strehler già nel 1955, ‘uno spettacolo popolare, tipicamente italico, libero di se, il più anti-intellettualistico possibile’. (E poi gli accoliti culturali dei nostri nuovi governanti sono ancora lì a blaterare di D’Annunzio e di Pirandello…) 

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