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Barba-pedia-3, ultimo atto: tra Holstebro e Tebe, la febbre gialla, l'amore e la rivoluzione teatrale

Nella foto di Rina Skeel per Odin Teatret Archives, una scena di ‘Tebe ai tempi della febbre gialla’.

 Il 31 dicembre del 2020 Eugenio Barba si dimette dall’incarico di direttore del Nordisk Teaterlaboratorium di Holstebro, per dedicarsi solo al suo Odin. E nemmeno due anni dopo, nel 2022 arriva il 1° dicembre il giorno dell’annuncio ufficiale, stile freddo del Nord d'un tempo, sul divorzio tra il fondatore e l’istituzione danese, che è stata costituita nel 1983, vent’anni dopo la nascita dell’Odin Teatret. E’ un po’ come se si fosse riavvolto un nastro (con la scusa del 'ricambio generazionale'), quando il rifiuto dell’ambiente teatrale e l’amputazione della lingua da elementi d’inferiorità vennero trasformati in punti d’onore e di forza del nascente Odin Teatret, come ha spiegato Barba in un discorso di qualche anno fa.

 Che cosa sia poi successo tra il 2020 e il ’22 lo ha dichiarato con grande semplicità Barba stesso, in occasione della breve tournée italiana di ‘Tebe al tempo della febbre gialla’: ’la nuova direzione del Nordisk ha fatto scelte che non corrispondono più alle visioni e ai valori che hanno guidato il mio lavoro con i compagni dell’Odin Teatret per più di mezzo secolo’. Aggiungendo: ’ Questa separazione ci ha privati della sede nella quale contavamo su una vecchiaia di lavoro. È questa vecchiaia operosa che mi propongo di realizzare nell’inaspettato epilogo della nostra storia. Continueremo la nostra attività in un altro luogo, naturalmente anche con nuovi spettacoli. Nella fine è il tuo principio, dice il poeta’. 

 Per ora, terminata l’ultima tournée con le rappresentazioni di Tebe al Theatre du Soleil di Ariane Mnouchkine, a La Cartoucherie di Parigi Vincennes (per la vicinanza più che cinquantennale tra Barba e Mnouchkine, vedi il loro incontro storico) Barba continua a lavorare come studioso di antropologia teatrale e per le sue nuove istituzioni, l’Archivio vivente a Lecce e la Fondazione Barba-Valley, per animare le sue tradizionali attività di maieuta e formatore del Terzo Teatro nel mondo, con ‘lo scopo di appoggiare focolai di azione di soggetti svantaggiati per genere, etnia, geografia, età, modo di pensare e agire dentro e fuori del teatro’. Gli attuali vertici di Nordisk Teaterlaboratorium, per ora, si limitano a salutare 'Eugenio Barba e augurargli buona fortuna per le nuove attività ei progetti per i prossimi anni', specificando che 'diversi attori dell'Odin Teatret rimarranno al Nordisk, Iben Nagel Rasmussen, Roberta Carreri, Kai Bredholt, Donald Kitt, Luis Alonso e Carolina Pizzaro'. Dal canto suo Barba annuncia di proseguire con l'Odin e rimanda tutti al nuovo sito https://odinteatret.org, dove si può vedere un'agenda già fitta di programmi per i prossimi mesi.

 METAMORFOSI VERE E FIGURATE 

 Per quanto riguarda la scena vera e propria, proprio nel giorno dell’addio all’istituzione di Holstebro, si ha notizia di una singolare ripresa a Firenze, nel Teatro Cantiere Florida, per il Festival Materia Prima, di ‘Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa’: è il primo allestimento di Barba extra-Odin, firmato per Nordisk insieme a Julia Varley e al premio Ubu Lorenzo Gleijeses, che ne è anche l’interprete. Parliamo di uno spettacolo concepito nel 2015 e già rappresentato in Italia (per esempio a fine settembre del 2021 negli spazi a Milano della Triennale, istituzione che svolge un prezioso lavoro anche sul teatro, con scelte d’apertura alla scena internazionale), ispirato alla ‘Metamorfosi’ di Franz Kafka, con una profonda fedeltà allo spirito del testo pur nella narrazione meta-teatrale: Gleijeses s’imprigiona egli stesso nell’insetto kafkiano, aiutato dalla voce di Barba ad allestirne un nuovo adattamento scenico…

 Che la maestria di Barba si potesse esercitare anche al di fuori dei tradizionali schemi creativi dell’Odin, decisamente insoliti, più emozionali che razionali, nessuno poteva avere dubbi. Come disse sempre ricevendo il premio Sonning Barba stesso: ‘Lo spettatore deve essere cullato dai mille sotterfugi dell’intrattenimento, del piacere sensoriale, della qualità artistica, della raffinatezza estetica. Ma l’essenziale risiede nella trasfigurazione della durata effimera dello spettacolo in una scheggia di vita conficcata nel costato dello spettatore e che l’accompagnerà negli anni’. Per concludere alla Kafka, appunto: ‘Lo spettacolo, come un insetto, si installa nell’intimo dello spettatore, gli rosicchia il metabolismo psichico, mentale, affettivo, si muta in memoria. Le azioni dell’attore devono marcare in modo anonimo, ma reale lo spettatore. Questo marchio è il messaggio che tu trasmetti a coloro che non sono ancora nati’. 

 E GODOT NON ARRIVO’, PER UN SOFFIO

 Kafka e James Joyce sono considerati gli scrittori che più di qualunque drammaturgo abbiano contribuito a quella rivoluzione teatrale cui in qualche modo si richiama anche l’esperienza dell’Odin, ovvero alle innovazioni del teatro cosiddetto ‘della crudeltà’, e al filo rosso che lega questi due maestri apicali della letteratura novecentesca ai capolavori di Samuel Beckett, per esempio. Bisogna considerare che la fortuna di protagonisti come Barba e l’Odin, piuttosto che del Living Theatre, ha avuto sul finire degli anni Sessanta qualcosa di davvero imprevedibile, a ripensarci oggi, considerando quanto la scena teatrale europea, anche istituzionale, in alcune metropoli come Londra, Parigi, Berlino e Milano, vedesse ancora autori e registi in pieno fulgore come Beckett, Genet, Ionesco, per dire i primi nomi. E se Barba ha avuto poi modo d’incrociare quasi subito tanti protagonisti di primo piano, Peter Brook in primis, si può dire invece che l’incontro con quei mostri sacri sia mancato per un soffio. Con Beckett, addirittura, era stato già praticamente organizzato un appuntamento, nel 1967, dal giovane studioso di teatro Christian Ludvigsen, che aveva fondato il dipartimento di Drammaturgia all’università di Aarhus ed era stato consulente letterario dell’Odin nei primi anni, nonché l’autore del secondo spettacolo della nuova compagnia di Barba, ‘Kaspariana’ (da Kaspar Hauser). All’ultimo momento, però, Beckett decise di rinunciare a raggiungere la Danimarca da Berlino, dove era stato impegnato nell’allestimento e nella regia stessa di ‘Endspiel’, versione tedesca di ‘Finale di partita’. Provato dal lavoro e anche molto preoccupato per il nuovo manifestarsi di un fastidioso disturbo alla vista, Beckett si precipitò a tornare appena possibile a Parigi, anche se avrebbe volentieri incontrato gli studenti di Ludvigsen e la compagnia scandinava di Barba, di cui già si cominciava a parlare anche per il rapporto con il nascente guru del ‘teatro povero’ Jerzy Grotowski

 QUEL GIALLO CHIMICO COSì POTENTE E FRAGILE

 Se si rileggono oggi alcuni testi chiave dell’epoca (per esempio i saggi fondamentali di Franco Quadri sul teatro degli anni Settanta, di cui lo studioso fu divulgatore e animatore) si può vedere anche come lo spettacolo d’addio appena portato in scena da Barba con l’Odin Teatret, su Tebe ai tempi della febbre gialla, richiami direttamente a un momento tra i più significativi di quella che è stata definita, appunto da Quadri, l’Invenzione di un teatro diverso: le 220 rappresentazioni in poco più di un anno, tra il giugno 1969 e il luglio 1970, di ‘Ferai’, la rilettura attualizzata del mito di Alcesti che ha fatto conoscere il nuovo gruppo con base in Danimarca e il primo spettacolo in cui viene messa a punto la formula della scena come un ‘fiume’ centrale intorno a cui far sedere, per file orizzontali, una sessantina di spettatori al massimo, in modo che ciascuno sia costretto a cercarsi una sua propria visione di quel che accade. La scena stessa di questa Tebe sul bisogno d'amore che ha colto tutti al risveglio post-pandemico, si richiama a quella di 'Ferai', anche se la rilettura del mito di Edipo oggi non ha quasi nessuna interferenza con l’attualità politica, come fu al tempo per Alcesti, il cui suicidio era evocato anche come esempio ancestrale dell’eroe della rivoluzione anti-stalinista praghese Jan Palach. Tebe è in primo luogo uno spettacolo sul teatro e la stessa incursione nel territorio artistico (la scoperta dei nuovi colori chimici da parte dei pittori dopo il 1850) che muove da Klimt a Munch, passando per i post-impressionisti tutti, suona come la metafora dello stato d’eccitazione che si creò nelle avanguardie teatrali in cui esplose l’Odin Teatret. E lo fa in modo ancor più impressionante se si considera che il problema della conservazione degli originali di quelle tele della rivoluzione pittorica è proprio la precaria stabilizzazione dei primi gialli chimici, che con il tempo tendono fatalmente all’avorio: impossibile non leggere l’indiretta constatazione, proprio a fine corsa dell’esperienza dell’Odin nel Nordisk, di quanto i sacri furori ideologici di fine anni Sessanta siano ormai così lontani e spenti, e di come vada oggi ricercata quella ‘bellezza’ di sostanza aldilà delle mode.      

 L’ULTIMA TEBE DECODIFICATA IN LIMINA

 Per il resto di Tebe, a questo punto, cediamo volentieri la parola, a Marina Fabbri che, forte di un’affinità culturale alle radici grotowskiane di Barba, rilegge così in Limina l’ultimo spettacolo dell’Odin Teatret: ‘Gli attori, nei loro costumi grotteschi e poveri allo stesso tempo, si avvicendano raccontando storie che non comprendiamo, poiché parlano il greco antico, ma nutrendole di gesti e azioni fisiche che comprendiamo e soprattutto ricordiamo benissimo, per aver visto altri spettacoli e assistito ad altre storie raccontate da questi stessi attori. Riconosco in questo la pazzia di Aglaia-Antigone di Roberta Carreri, il Creonte di Kai Bredholt, «un cagnaccio che conversa a fischi e abbaiando», il solenne e disincantato Tiresia di Julia Varley, la inquietante e adrenalinica Sfinge di Donald Kitt, e Iben Nagel Rasmussen che non incarna (sarebbe volgare) ma porta su di sé come il fardello di un destino il Fantasma di Edipo. Riconosco e mi sorprendono sempre l’incedere tra danza e processione solenne dei loro personaggi, i gesti d’amore e di violenza, la spensieratezza caracollante, la follia delle tensioni verso un nemico o forse un amico invisibili, il raccoglimento doloroso della preghiera che in un attimo si apre ad una festa inaspettata. E a poco serve sapere la successione delle scene, dalla 1 alla 12, che viene educatamente riportata nel programma: dal Rituale di purificazione (1), allo Spirito di Edipo che rivela a Tiresia il senso del destino umano (4), ad Antigone che diventa un mito (7), fino a che Sette volte sette Tebe sarà distrutta e sette volte sette più una Tebe risorgerà (12). O meglio, serve a rileggerla dopo lo spettacolo, a casa, quando quelle figure intagliate nel buio e rilucenti di luce propria, di una luce che viene da sessanta anni di storia e di lavoro, tornano a popolare la nostra mente che si è fatta rapire ancora una volta dal teatro sapiente e necessario di Eugenio Barba e dei suoi compagni dell’Odin. Come appunto in ogni spettacolo di Barba che si rispetti anche qui si parla di noi e si parla di loro, degli attori, si parla di un mondo che sta scomparendo e di un orizzonte fosco che non vorremmo vedere, ma anche di un teatro che scompare e dei suoi attori che si rimettono in cammino. Si parla delle ingiustizie che ci flagellano, della rabbia che non sappiamo esprimere abbastanza per cancellare quelle ingiustizie, si parla della nostra inesorabile sete di innamorarci nonostante le sconfitte e le perdite, si parla del lutto e della rinascita. Insomma, il teatro’.

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