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Barbapedia 2/ L'energia, l'aldilà della forma e l'antropologia teatrale

 Con l’ultimo spettacolo, ’Thèbes au temps de la fièvre jaune’, in scena al Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine sabato 19 novembre, Eugenio Barba lascia il palcoscenico dopo oltre mezzo secolo: non deve stupire che abbia scelto di far recitare per l’ultima volta i suoi storici compagni dell’Odin Theater in greco antico, calcando su quel linguaggio pre-espressivo del teatro che ha caratterizzato la sua cifra. Anche la ‘febbre gialla’ del titolo, ha spiegato Barba a Patrizia Pertuso in una recente intervista, ‘è uno dei trucchi o degli stratagemmi del regista. Comincio a trattare la storia di questa famiglia greca, a Tebe, dove è presente la peste. Però volevo capire come poteva essere rappresentato un grande rigurgito di vitalità inserendo quella città dove ormai è tutto avvenuto – la battaglia, la guerra fratricida, la peste stessa – in un contesto. Quando lavoro come regista ho una storia davanti e mi diventa essenziale crearle un contesto che contenga storie diverse e divergenti. Quel rigurgito di vitalità l’ho trovato intorno al 1850 in Francia con la rivoluzione pittorica che avviene con gli Impressionisti. Da quel momento in poi, a livello industriale, si possono produrre colori che si inseriscono nei tubetti: prima il pittore doveva prepararseli da solo ed era complicatissimo ritrarre un panorama all’esterno. Da quegli anni cambia tutto, tanto che si ha un enorme fioritura di paesaggi. Le industrie producono due colori: il violetto e il giallo. Gli Impressionisti usano tanto di quel violetto che all’inizio furono chiamati “violettisti”. La scelta del giallo per questo spettacolo è nata da un’esperienza che ho avuto a Parigi dove ho visto un’installazione video immersiva su Klimt: ho trovato fantastico quel tripudio di giallo e ho deciso che nell’ultimo spettacolo avrei voluto godermelo. Poiché non uso la tecnologia ho dovuto inventarmi qualche altra cosa. La febbre gialla per me è un’esplosione che avviene durante lo spettacolo’. 


 Nella foto di Rina Skeel, una scena di ‘Tebe al tempo della febbre gialla’, ultimo spettacolo dell’Odin Teatret 


 L’avventura straordinaria dell’Odin Theater comincia nel 1965 con ‘Ornitofilene’, rielaborazione di una pièce di Jens Ingvald Bjørneboe (intellettuale norvegese alla Pasolini, con cui Barba ha collaborato nei primi anni) sullo scontro tra alcuni animalisti, turisti tedeschi in Italia, e due cacciatori. Due tedeschi vengono però smascherati come ex militari nazisti, che avevano torturato e ucciso durante l’ultima guerra, e sono processati dalla comunità che avevano vessato’ (Franco Perrelli ‘Gli spettacoli di Odino’, edizioni di Pagina, 2005).


 Il gruppo di allievi respinti dalle Accademie teatrali che si riunisce intorno a Barba, e inizialmente adotta le lezioni del ‘teatro della crudeltà’ di Antonin Artaud e del ‘teatro povero’ di Jerzy Grotowski, raggiunge in breve fama mondiale, nel ’69, dopo il terzo spettacolo ‘Ferai’, scritto con il danese Peter Seeberg: il titolo si riferisce alla città del mito greco di Alcesti, analogamente a quanto oggi Tebe alluda al mito teatrale per eccellenza di Edipo, ma la chiave di ‘Ferai’ è una sorta di combinazione tra l’Olocausto e gli eventi storici contemporanei legati al sacrificio di Jan Palach (la Primavera di Praga).  

 La fortuna dell’Odin, secondo Barba, è gli attori si sono ritrovati tutti da stranieri, privati della possibilità di parlare la propria lingua, e alle prese con un’attività in cui erano veri e propri dilettanti, con pochi mezzi, nella cittadina danese di Holstebro, dove alcuni lungimiranti amministratori puntano a far nascere un teatro e mettono a disposizione una vecchia stalla in periferia e qualche fondo per i lavori e il mantenimento della compagnia. 

 In più di un’occasione gli ‘odiniani’ hanno rischiato di perdere questa postazione privilegiata e il favore di Holstebro, soprattutto dopo la messa in onda sulla televisione danese di un servizio giornalistico sull’ormai raggiunta fama internazionale di questa piccola compagnia di provincia: nel reportage si vedevano anche alcuni momenti del training degli attori, e molti spettatori, anche del posto, si dissero scandalizzati per averli visti, per esempio, urlare contro un muro frasi sconnesse… Del resto, come dice Barba: ‘il teatro è energia. Persisto con i miei attori a far fiorire spettacoli che non si lasciano comprendere nella loro interezza dagli spettatori perché non si indirizzano all’intelletto ma all’essere-in-vita’.

 Un punto di passaggio fondamentale è stato poi il biennio 1974-75 con il provvisorio trasferimento dell’Odin in Salento, la terra d’origine di Barba, dopo i primi anni di straordinario successo e nonostante l’affermazione di Holstebro come meta di una sorta di pellegrinaggio internazionale di addetti ai lavori e spettatori del ‘teatro povero’ grotowskiano. Il salto all’indietro, addirittura a un ‘teatro del baratto’, dove la compagnia scambia con la popolazione spettacoli per ospitalità - e siamo in zone del sud dove non c’è mai stata nemmeno una sala teatrale -, costringe in qualche modo Barba ad approfondire ulteriormente la scelta di puntare a un linguaggio primitivo, pre-espressivo, diretto anche se alquanto sofisticato nella costruzione dietro le quinte. ‘Cos’è il teatro? È la scienza suprema del mistero della vita, accessibile anche ai diseredati della terra’, ripete oggi Barba.

 In un discorso del 2019, per il conferimento della laurea ad honorem all’università del Peloponneso, Barba ha spiegato: ‘La mia difficoltà più grande? Ispirare all’attore azioni che si elevino alla dignità dell’enigma. Cerco di stabilire coincidenze tra l’esecuzione precisa dei dettagli fisici e sonori, e la pluralità del loro senso nella cornice di tempo e spazio in cui li mescolo: ossimoro nelle azioni e ambiguità nelle scene. Come primo spettatore, constato su me stesso l’effetto di evidenza e mistero che le azioni e gli oggetti assumeranno allo sguardo dello spettatore. Il mio mestiere è solo saper fare, finzione, forma? Parole, intonazioni, silenzi, gesti, movimenti, immobilità sono un intreccio di forme percettibili. Ma il disegno di tutte queste migliaia di tensioni - le azioni della partitura dell’attore - non sono la forma. È la maniera di far percepire sensorialmente allo spettatore l’aldilà della forma’.

 Oltre a una ricchissima attività di formazione, Barba ha pubblicato vari libri (imperdibile la grande monografia enciclopedica illustrata, scritta con Nicola Savarese per le edizioni pagina nel 2017, ‘I cinque continenti del teatro’) e documenti filmati, contribuendo così in maniera innovativa alla crescita della ‘scienza del teatro. Nel 1979, Eugenio Barba ha fondato l’Ista, International School of Theatre Antropology, centro itinerante di studi comparativi sui principi della tecnica dell'attore e ha dato il nome di Antropologia Teatrale a questo campo di studi. Nel 2002 ha dato vita al Centre for Theatre Laboratory Studies in collaborazione con l'Università di Aarhus.

 Anche se il cerchio dell’Odin si chiude con Tebe, Barba è portato a non sopravvalutare la lezione del teatro greco delle origini: ‘in realtà non ne sappiamo niente, e gran parte delle opere sono andate perdute. Credo che le vere origini del teatro siano piuttosto nel XVI secolo quando si formano le prime compagnie come quella che nasce a Padova nel 1545. Noi le conosciamo come Commedia dell’Arte, ma rappresentano il primo vero passo verso il teatro. In quelle compagnie ci sono donne mezze prostitute – le attrici erano chiamate ’prostitute oneste’ -, soldati di ventura che non volevano più combattere e si univano agli attori girovaghi, figli di nobili non primogeniti quindi esclusi dall’eredità. Tutta questa umanità per sfuggire alle costrizioni della società, dei potenti e della chiesa trova rifugio nel teatro, l’unico luogo dove le donne possono fare quello che vogliono e gli omosessuali possono mostrare le loro tendenze’.


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