" /> Lassù tra le montagne si balla all'insegna della natura: Bolzano Danza fa 40 con un programma festoso e superlativo

Bisogna seguire l'Arte per capire il Presente, e anche dove va il Teatro/ Appunti dall'ultima Biennale di Lione

'Ruota panoramica' di Ali Madad Sakhirani (©Identité visuelle : Zoo, designers graphiques) per una delle locandine fotografiche di Bac24

 Due ore, due, in una grande sala quasi del tutto buia, con otto grandi schermi immersivi posizionati qua e là, e poi ancora un’ordinata fila per affrontare il passaggio nel sotterraneo, dove vedere una decina di quadri e la ricostruzione del lavoro per l’allestimento: ci volevano almeno due ore, per apprezzare completamente ‘The Cave’, il capolavoro della serie ‘Resonance Project’ di Oliver Beer, alla 17ma Biennale d’Arte contemporanea di Lione.

 Il progetto, di una disarmante essenzialità nel risultato seppure di rara complessità, ha visto l’artista filmare e registrare separatamente, uno per volta, le voci di otto musicisti di diversa estrazione e provenienza, in angoli diversi delle grotte di Font-de-Gaume, in Dordogna, dove miracolosamente si sono conservati sulle pareti i disegni tracciati 14mila anni fa.

 Ciascuno degli otto cantanti e musicisti, alcuni di una certa notorietà (sono: Rufus Wainwright, Woodkid, eee gee, Mélissa Laveaux, Hamed Sinno, Jean Christophe Brizard, Mo'Ju e Michiko Takahashi), era stato invitato a far risuonare, in un suo proprio antro specifico delle grotte, il primo canto che ricordava di aver udito da piccolo, scavando tra i ricordi, come a specchio interiore della caverna stessa.

 Nell’allestimento per Biennale i vari video, tagliati e montati, partono ciascuno sul proprio megaschermo, separato e distanziato, e gli otto cantanti sembrano sfasati come in una sorta di Babele delle filastrocche del mondo: poi man mano si ritrovano insieme coordinati, in un finale a sorpresa.

 Semplice e insieme assolutamente ammaliante, per il contesto artistico paleo-storico, per la diversità delle voci, delle lingue e dei canti, per l’effetto complessivo di questa immersione dello spettatore nell’antro post-moderno delle nuove tecnologie di proiezione.

Abbandonandosi alla poesia di una costruzione straordinaria, come questa di Beer, si entra davvero in un’altra dimensione, di un’armonia propriamente artistica e anche della condivisione di un sentimento di nostalgia con la comunità umana intera, su una scala spazio-temporale invero impensabile.  

 Nel sotterraneo, una cava nella cava, vari video illustravano i nomi e le storie dei cantanti, di fronte ad alcuni dei quadri prodotti dall’artista nell’occasione: sono definiti ‘dipinti di risonanza’, perché a crearli è il movimento del pigmento a seguito dell’irradiazione delle onde sonore, senza alcun contatto diretto, né dell’artista né in questo caso degli otto cantanti, con la tela.

Le vibrazioni delle voci dei cantanti, che sono ovviamente particolarissime negli anfratti scelti da ciascuno per cantare la sua prima nenia, si rivelano vere e proprie forme astratte riprodotte in pittura, altrimenti resterebbero invisibili riempiendo l’aria nella grotta.  

 Alla fine questi quadri ‘di risonanza’ sono appunto il prodotto originale, e abbastanza misterioso, che l’artista poi concretamente distribuisce attraverso due galleristi di prim’ordine, Tadeus Ropac e Almine Rech.

Ma è pressoché impossibile sia racchiudere l’attività multidisciplinare di Beer in una definizione precisa (1), sia immaginare che per ora riesca a finanziarsi con queste opere - come faceva per esempio Christo con i bozzetti delle sue installazioni evento -, tappe del rilievo di ‘The Cave’ del suo ambiziosissimo ‘Resonance Project’, che richiedono il contributo di istituzioni di prim’ordine e di fondi pubblici come l’inglese Fluxus Art.

Il musicista canadese Rufus Wainwright con l'artista Oliver Beer durante le riprese di 'Resonance Cave' nelle Grotte paleolitiche di Font-de-Gaume, in Dordogna: la grandiosa installazione a Les Grandes Locos era un capolavoro (2023 ©oliverbeerstudio)

 All’incrocio tra le più svariate discipline artistiche questo ultimo lavoro di Beer s’è persino trovato, involontariamente, cioè senza alcun contatto, proprio come i suoi quadri di risonanza, a margine di un momento molto vivace di discussione negli studi culturali su quello che ci è pervenuto relativamente alle primissime attività artistiche dell’uomo. 

 Per esempio, uno studioso italiano di rilievo, Michele Cometa, ha pubblicato più o meno contemporaneamente all’allestimento di ‘The Cave’ di Beer, un singolare saggio dal titolo ‘Paleoestetica’ in cui sostanzialmente illustra come queste primissime tracce artistiche della cultura umano vadano in realtà considerate, più che semplici pitture, veri e propri elementi di una proto-rappresentazione.

Come tali vanno analizzati complessivamente evitando di credere che il fare-immagine paleolitico possa essere ridotto a un puro ‘fatto visivo’, essendo coinvolti altri sensi, in particolare tatto e udito. La ricezione delle immagini paleolitiche, del resto, era accompagnata dalla naturale sonorità delle caverne e le stesse incisioni erano più facilmente leggibili con le dita. La relazione con le superfici delle immagini parrebbe essere stata prima aptica e poi ottica, considerando che i primi segni realizzati dall’Homo sapiens sono impronte realizzate con le dita e con le mani.

 In qualche modo già il film documentario di Werner Herzog ‘Cave of forgotten dreams’ - girato nel 2010 in una grotta nell’Ardèche dove sono stati ritrovati i più antichi dipinti dell’umanità, risalenti a 32mila anni fa - suggeriva intuitivamente quel che poi l’approccio multidisciplinare dei paleontologi sta elaborando come teoria del ‘proto-cinema’.

 E’ abbastanza curioso notare, tra l’altro, che gli interminabili consumati dibattiti sul ‘perfomativo’ e la ‘teatralizzazione dell’arte’, si siano ormai quasi proprio trasferiti ai ‘cultural studies’ della preistoria, più di mezzo secolo dopo. In ogni caso, tornando a questo strepitoso allestimento di Beer, va ricordato che concludeva più che degnamente il pellegrinaggio laico dei visitatori nel nuovo grandioso sito industriale dismesso che è stato affidato a Biennale di Lione, Les Locos, ed è stato unanimemente celebrato come il pezzo forte della rassegna.

E il bello è che l'intero spazio e i vari luoghi di passaggio, persino il soffitto del primo capannone con l'ammaliante Mortier Fati - Linee di luce, del canadese Michel de Broin, pullulavano di opere, di richiami, d'emozioni di vario genere, molte anche decisamente divertenti.

Puntuali le scritte luminose di Nathan Coley, a cominciare da 'There will be no miracles here', controcanto perfetto di una Biennale intitolata Le voix des fleuves. Crossing the water (Le voci dei fiumi. Attraversare l’acqua) e presentata come 'l'invito a un dialogo profondo tra arte, natura e umanità, per focalizzarsi sull’altruismo e sulla comunicazione tra popoli in questo momento storico'.

 A tal proposito qualche critico d’arte francese più snob ha criticato le scelte della curatrice Alexia Fabre, oggi a capo delle Belle Arti a Parigi, perché troppo guidate da una sorta d’ossessione per la riparazione, in un mondo così ferito.

Un tema che certo attraversava molte opere della Biennale, in particolare quelle esposte al MAC di Lione, l’altro grande sito dell’evento, che si chiudeva anch’esso con un’opera monumentale, un museo nel museo allestito nell’intero ultimo piano dall’artista anglo-keniota Grace Ndiritu, che poneva in profondità la questione delle restituzioni delle opere d’arte sottratte dai Paesi colonialisti nel Terzo e Quarto mondo.

 Michel de Broin, Mortier Fati, simulazione dell'installazione sul soffitto del capannone a Les Grandes Locos

 Sempre al MAC un altro allestimento particolarissimo poteva impegnare per ore i visitatori, ed era ‘Monte di Pietà’ dell’artista e regista teatrale Lorraine de Sagazan, che raccoglieva e registrava una varietà bizzarra di oggetti raccolti tra vittime dell'ingiustizia e raccontava i ricordi ad essi legati con le parole della poetessa Laura Vazquez, raccolte nelle schede numerate che si potevano consultare all’ingresso. In quattro specifiche sessioni aperte al pubblico, l'artista e la poetessa hanno selezionato e aggiunto altri oggetti e storie.

 Ci piace ricordare anche che la stessa de Sagazan è in tournée con il nuovo spettacolo ‘Leviathan’, presentato al Festival d’Avignone quest’anno, che sarà in scena dal 2 al 23 maggio alla Sala Berthier dell’Odéon di Parigi. Lo stile teatrale di Lorraine, che firma questo lavoro con Guillame Poix, non è esattamente lo stesso ‘minimalista’ di quello artistico, anzi (2).

Lo spunto di partenza viene comunque sempre da storie di realtà, caratterizzate dalla micidiale combinazione sociale d'ingiustizia e di dimenticanza. Nel caso di 'Leviathan' il teatro viene trasformato in una sorta di contro-scena in stile circense della 23a camera del Tribunale di Parigi, dove si svolgono i processi ‘a comparizione immediata’.

Il lavoro nasce da un'accurata ricerca tra queste udienze lampo di una ventina di minuti che invariabilmente finiscono con la condanna a pene detentive e che, di fatto, ribaltano la concezione della giustizia in oppressione sociale.

Lorraine de Sagazan, in prima fila a Biennale Lione, con 'Monte di pietà': autrice e regista teatrale, nel 2015 ha fondato la compagnia La Brèche, ora in tournée con 'Leviathan' (screenshot da lorrainedesagazan.com)

NOTA 1: CHI E' OLIVER BEER

(DAL SITO DELLA GALLERISTA ALMINE RECH)

Oliver Beer è un artista visivo e compositore le cui sculture, dipinti, installazioni, video e spettacoli dal vivo coinvolgenti rivelano le proprietà nascoste e la musicalità innata di oggetti, corpi e spazi architettonici.

Radicato nel suo background sia nella composizione musicale che nell'arte visiva, il lavoro di Beer attinge alle relazioni sociali e familiari per esplorare temi universali come la trasmissione del patrimonio musicale o il significato personale e culturale che attribuiamo agli oggetti che possediamo. Per il suo "Resonance Project" (2007–), Beer compone performance vocali che attivano le armoniche naturali delle strutture costruite, creando una connessione disarmantemente viscerale tra il pubblico e lo spazio circostante.

I suoi dipinti di risonanza traducono l'armonia musicale in forma visiva usando il suono per far vibrare il pigmento sparso sulle sue tele, catturando le "forme del suono" in un metodo di pittura che fonde in modo univoco l'espressione uditiva e visiva.

Il lavoro di Beer è stato esposto in importanti istituzioni, tra cui il Metropolitan Museum of Art e il MoMA PS1 di New York; London Mithraeum Bloomberg SPACE; il Centre Pompidou, l'Opéra Garnier, la Fondation Louis Vuitton, il Palais de Tokyo, il Musée d'Art Moderne e il Château de Versailles a Parigi; il Musée d'Art Contemporain di Lione; la Queensland Gallery of Modern Art in Australia; la Ikon Gallery di Birmingham; WIELS a Bruxelles; il West Bund Museum e il Long Museum di Shanghai; così come le biennali di Sydney, Istanbul, Lione e Venezia. Beer faceva parte del British Art Show 9 e ha intrapreso residenze a Villa Albertine, Palais de Tokyo, Watermill Centre, Sydney Opera House e Foundation Hermès.

Oliver ha studiato composizione musicale all'Academy of Contemporary Music di Londra, Fine Art alla Ruskin School of Art dell'Università di Oxford e teoria cinematografica alla Sorbona di Parigi.

Oliver Beer, inglese, classe 1985 (screenshot dal sito ropac.net)

(2) LORRAINE E IL META-TEATRO DELLA MEMORIA

La Brèche è una compagnia fondata nel 2015 da Lorraine de Sagazan. Il lavoro de La Brèche è caratterizzato dall'esplorazione di un possibile teatro 'extra-vivant', incarnato e di un gioco incessante nel presente, introducendo costantemente delle quote di realtà nelle opere di finzione portate sul palco.
Il lavoro di messa in scena mette in discussione il posto dato agli spettatori, i codici della rappresentazione e la necessità di raccontare gli esseri umani della nostra epoca, la loro difficoltà di esistere, di vivere insieme.

Lorraine de Sagazan studia filosofia e segue una formazione di attrice dal 2006 al 2010. Allo Studio-Théâtre d'Asnières - Centre de Formation des Apprentis comédiens (oggi ESCA), dove incontra gli altri componenti della compagnia, che la seguono poi all'École nationale du Théâtre di Strasburgo, per la prima creazione originale.

Nel 2014 parte per Berlino per assistere Thomas Ostermeier al lavoro su Le nozze di Maria Braun di Fassbinder, conversa con Marius von Mayenburg, incontra Falk Richter e osserva Romeo Castellucci sulle prove delle opere che presenta a Parigi nel 2015 e nel 2016.

Per il Festival Fragments d'Été a Parigi, nel 2015, propone un adattamento di Démons di Lars Norén. La compagnia La Brèche è stata fondata in questa occasione. Questo pezzo-manifesto inaugura un primo ciclo di lavori dedicato all'adattamento di testi del repertorio classico o contemporaneo, e al modo in cui la finzione di un'opera si confronta con il reale.

La fase di riscrittura dei classici si conclude nel 2019 con L'Assenza di padre dal 'Platonov' di Anton Cechov, scritto con l'autore e drammaturgo Guillaume Poix. Integrando il vissuto degli attori, questo pezzo inizia la ricerca che individua un secondo ciclo di creazione rivolto alla raccolta di testimonianze e al modo in cui, questa volta, la finzione risponde al reale.

Guillaume Poix co-firma la scrittura dei pezzi successivi con Lorraine de Sagazan, tutti caratterizzati da una spiccata attenzione alla realtà e da una sottile metateatralità

Ha anche creato con Anouk Maugein l'installazione Monte di Pietà nell'ambito della mostra di fine residenza degli artisti francesi a Villa Medici a Roma, nel giugno 2023. L'installazione / performance è poi presentata nel luglio 2024 alla Collezione Lambert di Avignone, nell'ambito del Festival di Avignone e poi alla Biennale d'Arte Contemporanea di Lione da settembre 2024 a gennaio 2025.
(da una scheda di Mélanie Jouen per Artcena)



Un angolo della grande stanza di 'Monte di Pietà' di Lorraine de Sagazan dal MAC Lyon

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