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Che festa, quei fiori a Shangai per Pippo e i mazzi che Elena e Rajeev si meritano con le ‘Notti’ di Slowmachine a Milano

 Eh no, non cominciate a dire che non c’entrano niente le composizioni floreali di Thierry Boutemy con Pippo Delbono ne ‘La Gioia’, della foto sopra (di Luca Del Pia). In effetti dal 5 maggio, i fiori, con Delbono e compagnia e produttore di Emilia Romagna Teatro orgogliosissimi per l'invito, sono nel lontano Yunfeng Theatre di Shanghai, per il Jing’an Modern Drama Valley Theatre Festival.

Vorremmo averne poi un bel mazzo qui, da consegnare a Milano, al Teatro Menotti, a Elena Strada e Rajeev Badan della compagnia Slowmachine, perché lo spettacolo ‘Notti’ che hanno presentato mercoledì 3 maggio, pur di tutt’altro genere rispetto allo stile che ha reso Delbono un caso internazionale, ha mosso le corde delle emozioni degli spettatori milanesi come di recente era successo giusto con l’immenso Pippo in tournée post-Covid al Piccolo e poco più. Potrebbe non esserci altro da aggiungere, ma…

 Stare dalla parte del pubblico è un brutto vizio: qualche volta, semplicemente, costringe a chiudersi la bocca. Eppure, dopo la prima milanese di questo lavoro tratto da ‘Le notti bianche’ di Dostoevskij, si dovrebbe far parlare, tanto per cominciare, la solita vicina competente che conosce e richiama persino i film che Bresson e Visconti hanno ricavato da questo ‘romanzo sentimentale’, o l’espertone di letteratura compiaciuto e pedante che, con in mano la cara vecchia edizione economica Fabbri di questo piccolo capolavoro, richiama pure Turgènev

Notevole, ancora, il signor so-tutto-io anche di teatro, che fa girare il mappamondo in un attimo, trovando che questo adattamento bellunese post-anni Dieci del Duemila, del ‘Diario di un sognatore’ originariamente ambientato nella San Pietroburgo del 1837, sia in pratica al livello del primo spettacolo che ha rivelato lo straordinario talento della brasiliana Christiane Jatahy, ‘E se elas fossem para Moscou’, per la sorprendente mescolanza di linguaggi con cui ha rimesso in scena le celebri ’Tre Sorelle’ cechoviane, come se fossero ragazze di oggi a Rio de Janeiro. 

 Basta così. Parlano ancor più lucidamente - e mai avverbio fu più preciso - i visi degli spettatori che hanno faticato a trattenere le lacrime, durante la botta finale così riuscita, anche perché fa leva su un espediente quasi paradossale, se si guarda al linguaggio tradizionale delle emozioni a teatro.

Ecco, non vale la pena di spoilerare di più, andando oltre con il resoconto. Andate voi, e in fretta, a vedere questo strepitoso ‘Notti’ a Milano, perché con la pomeridiana domenicale del 7 maggio al Teatro Menotti ritorna tutto chiuso nelle scatole di cartone del deposito delle scene all’Hangar 11 di Belluno, la rimessa per automezzi militari dell’ex-caserma Piave che Slowmachine ha trasformato in uno spazio performativo.

 A guardarli bene, i due fondatori e animatori di Slowmachine, mentre con passione s’attardano dopo lo spettacolo a festeggiare con i ragazzi di una classe di liceo che hanno assistito incantati e ora vogliono conoscere la compagnia (in scena con Elena-Nàstenska ci sono Ruggero Franceschini e Alberto Baraghini), sono proprio diversi.

 Lui, Rajeev Badan, uomo di scena e di intelletto, a suo agio con le nuove tecnologie come con il teatro classico (da un anno è anche il direttore, egregio, del Teatro Chiabrera di Savona) è un tipo alto con la barba, di un’imponenza che ricorda quasi un pope delle chiese orientali - con Dostoevskij siamo in tema -, seppur porti con orgoglio nel Veneto di Zaia nome e cognome che suggeriscono le origini familiari indiane.

 Lei, Elena Strada, vista giù dal palco, dove lavora altrettanto bene come drammaturga, è quella che si direbbe proprio ‘uno scricciolo’, insolito minuto frutto della terra di Brescia: s’è fatta conoscere, dieci anni fa o giù di lì, interpretando la parte della mistica Angela di Foligno, ma poi il suo sguardo naturale, in fondo, resta lo stesso che sul palco incantava pericolosamente, con quei due occhi azzurri che, direbbe il poeta francese, ‘Sont deux bijoux froids où se mêlent/ L’or avec le fer’ (più o meno: sono due gioielli freddi dove si mescolano l’oro con il ferro, da Charles Baudelaire, Le Serpent qui dance).

 Non fatevi ingannare dall’imperizia narrativa del cronista entusiasta: bisogna comunque notare quanto il linguaggio teatrale di Slowmachine, anche nella recitazione, sia più vicino allo standard internazionale cosiddetto artistico che al solito tono tutt'altro che understatement e, anzi, purtroppo spesso tronfio, imperante in Italia, che viene insegnato nelle nostre ‘migliori’ scuole, e porta ai noti premi e ai tanti bei voti nelle recensioni dei critici.

Ah, tra parentesi: che sogno invocato sarebbe se un giorno quei pallini sprecati su carta si trasformassero in palle di cartapesta per cannoneggiare verso chi fa certe scelte senza mai osare criticare gli intoccabili, omaggiando quelli che fanno di tutto per farsi riverire: a memoria, per dire di un caso opposto, ‘Amore’ di Pippo Delbono s’è beccato un 6 di sufficienza sul giornalone, pazzesco.

 Fortunatamente, all’alba dei quarant’anni ormai per Elena e Rajeev, la loro Slowmachine è un marchio già piuttosto noto agli addetti ai lavori, non solo italiani, più attenti al rinnovamento e alla ricerca. Ancora fuori dai grandi circuiti, dunque, si possono allestire spettacoli come questo ‘Notti’, croccanti come un buon croissant sfornato di fresco - perché parlano con il linguaggio della contemporaneità, non negandosi alla realtà anche se il tema è solo l’idea dell’amore che si ha da giovani - , e profondi come una miniera, il che del resto è inevitabile scarnificando così bene il giovane Dostoevskij in due o tre monologhi che sembrano shakespeariani.   

 Risultato, aldilà degli applausi e dei lucciconi finali, 80 minuti filati senza che nessuno del pubblico giochi con il telefonino o si distragga - un miracolo, considerando anche il pezzo di platea poco più che adolescente -, nonostante che, dopo la prima botta di luci e musica rave, non succeda più quasi nulla. Al netto che il quasi, nel caso specifico de ‘Le Notti bianche’, può stare anche per un prepotente tutto, come l’impalpabile del sentimento dell’amore che s’affaccia beffardo nell’età più luminosa della vita.

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