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Della ‘quinta parete’ di Castellucci e del progresso delle interpretazioni per Sam

Nella foto sopra il titolo di Luca Dal Pia, una scena di ‘Bros’ di Romeo Castellucci.

 Si chiude con una sorta di saggio di fine anno, mercoledì 21 dicembre a Milano, il progetto formativo ‘La quinta parete’, ideato dal regista e autore Romeo Castellucci per Triennale Milano, con tanto di bollo del Ministero della Cultura. Un piccolo evento durante il quale i partecipanti alle 17 giornate di formazione presentano - come recita un comunicato ufficiale - ‘delle azioni performative concepite durante il percorso. Al progetto, che Castellucci ha guidato insieme alla filosofa, performer e coreografa Silvia Rampelli, hanno preso parte quindici professionisti e studenti (nel campo di belle arti, design, architettura, grafica, fotografia, video, arti performative) e una dramaturg selezionati tramite una open call’. Ma che cos’è questa benedetta ‘quinta’ parete? Si sa che nella storia del teatro si è arrivati a teorizzare, già durante le prime pagine del Novecento, e in particolare dopo la svolta epico-politica impressa da Brecht, di abbattere ‘la quarta parete’, ossia l’ideale separazione tra i tre lati del palcoscenico e la sala. Castellucci, da qualche anno a questa parte, insieme con la consacrazione internazionale, ha voluto aggiungere una sorta d’impianto teorico al suo teatro così sorprendente sul piano visionario e ha lanciato l’idea appunto di ‘quinta parete’: ‘Uno spettacolo richiede lo sguardo partecipe dello spettatore perché qualcosa manca’, ha spiegato in un’intervista che apre un bel volume con foto di Luca Del Pia, sui 25 spettacoli firmati con la sua Raffaello Sanzio Societas (‘Attore, il nome non è esatto’, ed. Cronopio). Ciò che manca è esattamente la parte dello spettatore. Se vogliamo, il teatro non avviene sul palcoscenico, non avviene neanche solo nella sala, avviene a metà, tra il palco e la sala, là dove vi è un velo invisibile. L’incontro dello sguardo con la cosa è la quinta parete – non la quarta –; la mente dello spettatore come quinta parete. È questo il palcoscenico definitivo’.

LO SGUARDO DISFUNZIONALE DI OGGI

 La riflessione di Castellucci, così come ricostruita in un'interessante intervista con Velia Papa, muove ovviamente da un dato di realtà più che condivisibile: ‘Nell’epoca in cui viviamo siamo immersi in un flusso ininterrotto di immagini spazzatura; viviamo una disfunzione dello sguardo. Guardare è diventato un gesto passivizzante e bidimensionale, dolorosamente ovvio, privo di profondità. Credo che rimangano pochissimi ambiti della nostra vita sociale e collettiva in cui ci si possa rendere conto di cosa significhi guardare. Non è scontato. Nell’arte vi è una sorta di lotta di liberazione dello sguardo, che si chiede cosa è importante guardare, imparando che guardare ha delle conseguenze e significa comprendere sé stessi nel quadro umano della visione. Gli artisti hanno il compito di curvare lo sguardo. Lo sguardo che interroga è anche uno sguardo gittante, che ‘fa’ la cosa’. Da qui la teorizzazione della ricerca dell’incontro con la ‘quinta parete’, la mente dello spettatore appunto, che in qualche modo sentiamo assolutamente in sintonia con lo spirito della nostra modesta comunità dramaholica

La citazione

Come spettatore non vorrei sapere nulla dello spettacolo che mi accingo a vedere. Non vorrei avere protezioni culturali. La parola chiave è abbandono. Abbandona! Abbandona la retorica certezza della protezione culturale. Al contrario, esponiti al tuo sguardo, sii presente a te stesso’.

Appare perfettamente in linea con il meglio del cosiddetto ‘teatro povero’ grotowskiano l’assunto di Romeo Castellucci sull’atteggiamento di fondo che dovrebbe assumere lo spettatore, per aprire appunto la sua quinta parete.
Il fondatore della Raffaello Sanzio Societas in un ritratto di Eva Castellucci.

IL PRIMO PRANZO TRA ADORNO E BECKETT

 Il 27 febbraio del 1961, durante un viaggio in Germania, Samuel Beckett, che si era mosso da Parigi con la moglie Suzanne per andare a vedere la prima rappresentazione della nuova opera del suo amico Marcel Mihalovici tratta da ‘L’ultimo nastro di Krapp’, si trovò a sedersi accanto a Theodor Adorno durante il pranzo offerto dal suo editore a Francoforte, alla vigilia di una grande festa in cui il filosofo avrebbe dovuto celebrare pubblicamente la grandezza dello scrittore irlandese. La singolare contesa interpretativa su ‘Finale di partita’, diventata poi celeberrima, è cominciata così convivialmente, quando Adorno cominciò a spiegare a Beckett di avere elaborato tutta una teoria sui nomi dei protagonisti del teatro beckettiano e in particolare sull’ascendenza in Hamlet di Hamm…Beckett continuò a ripetere, sempre più arrabbiato: ‘Mi dispiace, professore, ma non è così, non ho mai pensato al personaggio di Shakespeare’. Niente da fare, Adorno restò fermo nella sua convinzione e poche ore dopo espose in pubblico la sua analisi, a partire appunto dall’origine di Hamm: ma, non bastandogli un Amleto, aggiunse anche che il nome di Clov non era nient’altro che una storpiatura di Clown. Beckett ascoltò con pazienza e alla fine ringraziò con voce incerta e con pochissime parole, ma prima d’alzarsi per raccogliere l’applauso del pubblico e raggiungere il podio mormorò al suo amico Siegfried Unseld, direttore della casa editrice Suhrkamp: ‘sarebbe questo il progresso delle scienze che i professori ottengono attraverso i loro errori?!?’


QUERELLE FILOSOFICA E VOLGARIZZAZIONE 

 Come noto, la disputa sull’interpretazione di Adorno (raccolta in un bel libro di Gabriele Frasca), si chiuse con una doppia presa di posizione del filosofo: dichiarando di ammirare l’orgoglio con cui Beckett amava sottrarsi a ogni tipo di lettura dei suoi testi, il padre della scuola di Francoforte tagliò corto sostenendo tout court che l’interpretazione di un’opera d’arte deve essere per forza di cose indipendente dalla volontà dell’autore. Sic. Beckett arrivò persino a scusarsi per i modi bruschi con cui aveva replicato più volte ad Adorno e mantenne formalmente un rapporto epistolare cortese con il filosofo. Decisamente meglio di quel che fece anni dopo, nel 1975, con l’attore Klaus Herm, che stava preparando il monologo di Lucky per una ripresa di ‘Aspettando Godot’ a Berlino, di cui Beckett stesso curò la regia. Herm, in uno dei primi incontri, cercò di mostrare all’ormai quasi settantenne Sam che si era preparato persino con una ricerca sui nomi dei personaggi che Lucky cita nel suo famoso monologo parodia del pomposo discorso universitario, e cominciò a spiegare che Peterman esisteva davvero e che Belcher era un navigatore. Beckett lo interruppe subito e lo riportò coi piedi per terra: ‘Ma no, Belcher è solo l’opposto di Fartov, che viene dall’inglese to fart, scoreggiare, mentre Belcher, appunto, da to belch, ruttare!’

 Non si ha notizia, purtroppo, dello sgomento del malcapitato Herm.(Gli episodi sono tutti ripresi da James Knowlson ‘Samuel Beckett. Una vita’, Einaudi 2002, trad.it. Giancarlo Alfano) 

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