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L'Angelo sulla scacchiera di Brecht e dei suoi eredi

 Ci mancava giusto ‘L’angelo della storia’ in Sotterraneo, dopo la storica riproposta, passata anche al Roma Europa Festival, de ‘L’opera da tre soldi’, capolavoro del cosiddetto 'teatro epico' di Bertolt Brecht, con musiche originali di Kurt Weill, ora riveduta e corretta in smagliante chiave meta-teatrale dal regista australiano Barrie Kosky per gli stessi Berliner Ensemble. E dunque eccoci qui a riconsiderare una piccola storia d'amori e di amicizie, in cui spicca il rapporto che ha legato Brecht all'intellettuale forse più influente e più citato dagli anni Sessanta, Walter Benjamin. Un legame che non s'alimentava solo per la comune passione per le partite a scacchi, ma soprattutto con ponderose discussioni sulla politica, la letteratura e, ovviamente, anche il teatro. Si sono frequentati sovente a Parigi, e Brecht ha anche ospitato per lunghi periodi Benjamin, che non se la passava proprio alla grande e non aveva nemmeno una casa, nel suo buon ritiro a Skovobostrand, sull'isola di Fünen, in Danimarca, e alla fine del 1940 gli ha dedicato il poema ‘Per il suicidio del profugo W.B.’.


UNA PRIMADONNA DI NOME E DI FATTO

 Nella seconda metà del settembre del 1937, Benjamin ha incontrato spesso Brecht insieme con Hélène Weigel, la ‘moglie ebrea’ sulle scene e nella vita. Il 1937 è anche l'anno, sia detto per inciso e senza voler adombrare alcunché, in cui Benjamin predilige a Brecht come avversario di scacchiera Heinrich Blücher, il nuovo compagno della sua carissima amica Hannah Arendt, che era filosofo e poeta, comunista militante ma anche anti-stalinista dichiarato già dalla fine degli anni Venti. Benjamin ricevette l'incarico di scrivere un saggio per la messa in scena parigina dell’Opera da tre soldi’, dove recitava la stessa Hélène, al Theatre de l'Etoile. Ma l'adattamento francese di Raymond Rouleau non ebbe grande successo e lo stesso Benjamin s'entusiasmò molto di più l'anno dopo, per alcune scene di ‘Terrore e miseria del terzo Reich’, con cui sempre la Weigel tornò in scena a Parigi. Così, anche questo scritto di W.B. non fu mai pubblicato. Forse corrisponde alla recensione che Klaus Mann si rifiutò di stampare sulla rivista ‘Die Sammlung’, adducendo il motivo di un'eccessiva richiesta economica dell'autore (Benjamin chiedeva 250 franchi, Mann ne offriva 150). In ogni caso il saggio è finito tra le carte inedite della grandiosa opera omnia postuma di Benjamin, pubblicata a cura di Rolf Tiedemann e di Hermann Schweppenhäuser (e di Enrico Ganni, per l'edizione italiana, in nove volumi Einaudi, al costo complessivo di 860 euro).    

LA CONTROMORALE DEI MENDICANTI

 Tratta dalla ‘Beggar’s Opera’ di John Gay, l'Opera del mendicante fu riscoperta da Elisabeth Hauptmann, storica collaboratrice di Brecht, che la tradusse in tedesco e ne suggerì una riscrittura in chiave contemporanea. Non è un ancora riemerso tra cancel-culture e Me Too, ma nel 1995 lo studioso John Fuegi, in un saggio provocatoriamente intitolato ‘Brecht & Co., Sex, Politics and the Making of the Modern Drama’, ha sollevato un polverone sostenendo che gran parte della fortuna del drammaturgo si debba al modo cinico e un po' crudele con cui ha sfruttato le sue collaboratrici e compagne. In questo testo si parla anche di un tentativo di suicidio della Hauptmann, alla notizia del matrimonio del regista con l'attrice Hélène Weigel, che il drammaturgo aveva sposato nel 1928, l'anno della prima rappresentazione de ‘L’opera da tre soldi’. Tornando a W.B., all’epoca non mostrò alcun dubbio sul perché la rilettura della vecchia opera sembrasse attualissima: ‘Nell'opera brechtiana diviene evidente, forse più ancora che in quella di John Gay del 1728, quanto intimamente la contromorale dei mendicanti e dei furfanti sia intrecciata alla morale ufficiale’. Al momento in cui Benjamin scrive il suo saggio, ‘L’opera da tre soldi’ era già un successo clamoroso. ‘Si reputa che, nel mondo, in un decennio essa sia stata già rappresentata quarantamila volte’, annota Benjamin, che cita il caso di Tokio, dove nel 1930 l’Opera è nei cartelloni di ben tre diversi teatri.

ALLARGA LE SUE ALI CON LA CABALA O...?

 Chissà che cosa deve aver pensato tra sé e sé Claudio Longhi, seduto con mascherina d’ordinanza a centro sala - sarà stata più o meno la posizione 10.10, fila e poltrona in quasi perfetta corrispondenza -, la sera di sabato 22 ottobre nel Teatro Piccolo di via Rovello a Milano, che è dedicato a Paolo Grassi ed è la sede storica dell’istituzione che dopo Strehler e Ronconi ha ora in lui il punto di riferimento. L’entrata in scena di una sorta di Angelo della Storia con vistoso paracadute giallo, verso cui Benjamin suicida avrebbe rivolto i suoi ultimi pensieri, è stato il primo dei tre o quattro contro-finali che i Sotterraneo mettono in fila. Ma l’intellettuale berlinese dalla sfortunatissima vita e dalla straordinaria fortuna postuma, era giusto un aggancio. Peccato, già immaginavamo che un’accesa discussione con Longhi avesse portato alla scelta di riproporre la versione canonica ortodossa della lettura che W.B. dava del celebre quadro di Paul Klee, confinandolo al rango di punto di riferimento del pensiero post-marxista francofortese, rigettando la lettura cabalistica di Gershom Scholem piuttosto che il tono ‘antiromantico’ e ‘antiprogressista’ delle Tesi sull’Angelus Novus. Il neo-direttore del Piccolo negli ultimi due lavori da regista ha sfiorato molto da vicino quel mondo ebraico-tedesco, con ‘Il peso del mondo delle cose’ da Alfred Döblin - al cui capolavoro ‘Berlin Alexanderplatz’ W. B. dedicò un importante saggio -, e con lo spettacolo fiume del 2020 tratto da ‘La commedia della vanità’ di Elias Canetti, in un circo-cabaret da quadro espressionista e con interpreti che sembravano usciti dall’accademia della Berliner Ensemble, come un magistrale Fausto Russo Alesi.

 Sopra il titolo, nella foto di Giulia di Vitantonio per Sotterraneo, una scena di 'L’Angelo della Storia' e, a seguire, Brecht con il sigaro gioca a scacchi con Benjamin (da ‘Walter Benjamin, l’angelo assassinato’ di Tilla Rudel, ed. Excelsior 1881)


 E FOSTER WALLACE COME LO VUOI?

 I tre fondatori del collettivo Sotterraneo dichiarano che il loro teatro si confronta soprattutto con il presente, nasce da una sorta di ossessione per la realtà del nostro tempo, e non vuole condividere altro che questo con il pubblico. Alla fatidica domanda: Qual è il messaggio?, fanno risuonare sic et simpliciter una risposta attribuita a Eugene Ionesco: “Non sono un postino”. Anche il loro spettacolo su David Foster Wallace, ‘Overload’ (=sovraccarico), che li ha portati a vincere un premio Ubu (è stato ripresentato a Milano, con 'Shakespearology' e l'Angelo nella prima personale al Piccolo), va in direzione ostinata e contraria rispetto alla cura per così dire più esegetica del contenuto. Viceversa, una delle proposte più intriganti selezionate all’ultima Biennale ROT, la versione di Yana Ross delle ‘Brevi interviste con uomini schifosi’, era quanto di più crudelmente fedele allo spirito e alla sostanza dell’opera di DFW. Certo, Yana Ross ha potuto bene avvalersi della tradizionale professionalità della squadra dello Schauspielhaus Zurich, uno dei più importanti luoghi di teatro dell’Europa germanofona, ma si vedeva eccome il tocco 'scandaloso' della regista d'origine lituana. Attenzione, però: da quest’anno la Ross è stata chiamata alla grande prova dalla Berliner Ensemble brechtiana, dove resterà per un triennio. Nel grande teatro che fu comunista di Brecht (come appunto nel Piccolo che fu), i lavori di rinnovamento sono in corso e non si fermano a far rispolverare da Korsky in chiave meno epica e meno prevedibile l’Opera must di casa, ma vogliono proprio scrollarsi di dosso le incrostazioni di un passato glorioso che forse pesa troppo, puntando anche sul teatro-teatro choccante e croccante, davvero antiborghese e senza sorrisi di sufficienza, quale quello che pratica la Ross.     


LA CITAZIONE

Ogni mattino ci si informa delle novità da tutto il globo. Eppure noi siamo poveri di storie singolari. Da cosa dipende? Dal fatto che non ci raggiunge più nessun avvenimento che non sia già imbevuto di spiegazioni (…). Una metà dell'arte del narrare consiste nel mantenere libera da spiegazioni una storia mentre la si racconta.

 Cosi Walter Benjamin (in ‘Piccoli pezzi di arte’, 1933) riprende le riflessioni di Montaigne sul racconto di Tucidide a proposito della sconfitta del re egizio Psammetico III. La storia narra che il faraone costretto ad assistere al trionfo del vincitore persiano Cambise, non si commosse tanto quando vide la figlia costretta a sfilare come schiava, e nemmeno quando si rese conto che il figlio veniva mandato a morte. Psammetico III pianse solo quando distinse, tra la folla dei prigionieri, il volto di un suo vecchio servitore. L'aneddoto viene riferito senza spiegazioni di sorta. Perciò alla fine, secondo Benjamin, la grande lezione di Tucidide dovrebbe essere tenuta meglio in considerazione nell'epoca nuova della comunicazione di massa. 


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