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Partite a tennis tra il neo-tragico e il post-drammatico, la performance e l’afformance, il dramma cechoviano e la versione berlinese di Yana

 E’ un ‘Ivanow’ ambientato in un circolo di tennis in Germania, e anche le parole o le situazioni sono originali (specifica la locandina, ‘liberamente ispirato’ al testo di Anton Čechov del 1887), la prima produzione di Yana Ross per lo storico Berliner Ensemble. Parliamo dell’istituzione collettiva ‘sui generis’, che ha avuto persino un periodo di direzione a cinque teste, con sede nella centrale piazza di Berlino oggi dedicata a Bertolt Brecht, nel teatro dove s’è proprio formata la scena  del Novecento, prima di tutto con il genio di Max Reinhardt. In questa più che prestigiosa sede ora è stata chiamata a lavorare anche la Ross, con un contratto pluriennale.

Questa sua prima versione di ‘Ivanow’ ha registrato, fin dal debutto a fine gennaio del ’23, anche le consuete severe critiche dei benpensanti, a volte veri e propri editoriali di rigetto, che la stessa regista sembra in qualche modo voler sempre provocare, spingendo le messe in scena al massimo grado di un urticante grottesco realistico. In questo caso la Ross ha voluto mettere a tema senza sconti, come in uno specchio per il pubblico, proprio la mediocrità borghese, l’antisemitismo e il razzismo latenti, il conflitto generazionale, il destino inesorabile dei tanti Ivanow tedeschi di oggi, che, pur abbienti anche sotto il profilo culturale, finiscono per ‘crollare sotto il peso dei problemi’, come scrisse in una lettera lo stesso Čechov.

In attesa di vedere questo o qualche altro titolo della Ross magari girare in tournée nella nostra remota Italia, come è successo l’altr’anno alla Biennale Teatro di Venezia, per il marzo del 2024 è annunciato un nuovo spettacolo con Berliner Ensemble, e sicuramente farà ancora scalpore. 

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BREVE STORIA DI UNA PROVOCATRICE DI TALENTO

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Yana Ross, nata a Mosca, è una regista teatrale lituano-americana. Si è formata negli Stati Uniti alla Yale School of Drama e oggi si descrive come una nomade cosmopolita. Ross è conosciuta per aver riscritto radicalmente testi classici e contemporanei, facendoli risuonare nelle più scottanti questioni sociali, morali e politiche del presente. L'obiettivo principale della sua produzione di ‘Zio Vanja’ di Anton Cechov in Svezia era l’uguaglianza di genere. In ‘La nostra classe’ di Tadeusz Słobodzianek ha affrontato il tema della memoria collettiva e dei tabù sull’Olocausto in Lituania. Nell’adattamento da Halldór Laxness, ‘Salka Valka’, ha affrontato l'incesto e gli abusi sui minori nella società islandese.

Nel 2008 è stata la prima donna a lavorare sul palco principale del Volksbühne di Berlino con la sua versione del ‘Macbeth’ di Heiner Müller. Dal 2019 al 2022 ha lavorato presso lo Schauspielhaus di Zurigo, un altro teatro di primaria importanza della scena europea, dove ha realizzato anche una versione choccante e croccante di ‘Brevi interviste con uomini schifosi’ di David Foster Wallace: questo spettacolo, che era ancora in tournée il 13 aprile scorso, a Bruxelles, segna un po’, da quel che s’intuisce, anche la versione di ‘Ivanow’ 2023, che peraltro si apre con una citazione proprio dello stesso DFW. 

 Yana Ross è diventata anche un’attivista e ha animato con forza, in Svizzera, le prime proteste contro l’invasione russa dell’Ucraina, del resto la madre veniva da una famiglia di Kiev. E si è schierata persino contro la sponsorizzazione di un’azienda russa filo-putiniana al Festival di Salisburgo del 2022, dove pure è stata chiamata tra i dieci autori che hanno curato ciascuno una parte del ‘Reigen’ di Arthur Schnitzler. Da più di dieci anni tutte le sue produzioni vincono premi e riconoscimenti. Nella ventina di titoli nel curriculum di Yana Ross, Čechov occupa il primo posto, con cinque allestimenti.

La citazione

Il teatro non attinge la sua realtà estetica, etica e politica da informazioni, tesi e concetti, per quanto abilmente sfiorati, non dai contenuti nel senso tradizionale del termine. Al contrario è parte della sua costituzione generare uno spavento, uno strappo dei sentimenti, un disorientamento, che proprio per mezzo di procedimenti apparentemente immorali, asociali, cinici mette a confronto lo spettatore con la sua stessa presenza, senza toglierli né il piacere, né il dolore, né la sorpresa della conoscenza, né il divertimento che sono le sole ragioni per cui continuiamo a incontrarci a teatro. 

Hans-Thies Lehman, frase conclusiva del saggio ‘Il teatro postdrammatico’ (traduzione italiana curata da Sonia Antinori per le edizioni Cue Press, 2019)
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VEDI ALLA VOCE POST-TRAGICO, ROMEO CASTELLUCCI

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Peccato che non abbia fatto in tempo a vedere questo sbarco nella Berlino brecthiana di Yana Ross anche il grande teorico teatrale Hans-Lies Lehmann, nato nel ’44 a Ehringshausen, in Assia centrale, e morto ad Atene nel 2022. Lehman, professore universitario a Francoforte, studioso di Müller e a lungo presidente della Società Internazionale Bertolt Brecht, fu autore nel 1999 del citatissimo saggio sul ‘Postdramatisches Theater’. Al tema specifico del rapporto tra politica, attualità e scena teatrale in epoca ‘post-drammatica’ Lehman ha dedicato l’epilogo della sua analisi e numerosi interventi successivi.

Ma il lavoro di Lehman che oggi verrebbe meglio richiamare è, casomai, il volume del 2013 ‘Tragödie und Dramatisches Theater’ (trad. it. ‘Tragedia e teatro drammatico’, da poco edito in Italia, per Cue Press) in cui lo studioso ha rimesso a punto la sua teoria aggiornando per sommi capi l’intera storia della tragedia: citando una serie di registi e di spettacoli anche dell’attuale teatro performativo, tra cui il nostro Romeo Castellucci, ‘tutti attenti a utilizzare la trasgressione, di origine tragica, come metodo compositivo, col ricorso ad un uso spettacolare della violenza, se non addirittura, della crudeltà’ Lehman nota come questa scelta punti a ‘una sorta di messa a nudo della tragedia, fino a disossarla, a emanciparla dalla centralità del testo e a radicalizzarla sulla scena, generando la stessa indignazione negli spettatori di oggi, che non è dissimile da quella degli spettatori del Teatro Predrammatico’ (Andrea Bisicchia).

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AFFORMANCE O PERFOMANCE? ASSURDO E DEFINIZIONI

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Per la gioia degli amanti delle definizioni, abbiamo dunque ora una sorta di teatro ‘perfomativo-neotragico’, che resta in qualche modo comunque ‘post-drammatico’, anche se poi persino sul ‘perfomativo’ non c’è poi più così unanime consenso: le contaminazioni con il mondo dell’arte e la minore generazione di significati chiari anche con l’esplosione dell’uso dei nuovi media, hanno fatto adottare la definizione di ‘afformance’, che in italiano potrebbe diventare teatro ‘afformativo’, o ‘adformativo’ per chi volesse latineggiare. Come si suol dire, aiuto!

Di sicuro, per restare all’esempio di Yana Ross, come s’intuisce anche solo dallo step attuale della sua traiettoria artistica, non ci si sbaglia tanto a parlare di teatro post-epico, nel senso di post-brechtiano, ma anche di anti-borghese, ovvero chi più ne ha, più ne metta. Come è chiaro, parlando invece dei testi di riferimento, che i registi-autori più intelligenti di oggi, quando si vogliono misurare ancora con quello che per praticità chiamiamo ‘teatro-teatro’, si rivolgono immancabilmente a Čechov, il maestro che ha sancito con le sue opere ‘l’incurabilità della forma dramma’, sulle cui spalle si sono mossi esplicitamente anche i pochi autori davvero post-drammatici del Novecento, da Artaud a Beckett (e qui citiamo uno studioso di prim’ordine come Claudio Meldolesi, nel suo intervento in appendice all’edizione italiana del pamphlet di Lehmann).

Al netto che, poi, tutti i grandi provavano allergia per qualunque tentativo di ingabbiarli, vedi Samuel Beckett che rigettava la definizione di ‘teatro dell’assurdo’, resa celebre ormai dieci anni dopo la pubblicazione di ‘En attendant Godot’, nel 1962, da un fortunato pamphlet pubblicato a Londra dall’autore e critico di origine ungherese Martin Esslin, non a caso influenzato dal successo nella capitale inglese delle rappresentazioni di Ionesco, Pinter e Genet.

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POCHI OMINI IN UN GRANDE SPAZIO GRANDE DIVENTANO GIGANTI IN UNA PICCOLA SCATOLA

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A proposito di ‘Aspettando Godot’ è memorabile tutta la vicenda della prima ripresa televisiva dello spettacolo, mandata in onda dalla BBC il 26 gennaio del 1961, mentre Beckett era a Londa per concordare con il Royal Court Theatre l’allestimento di ‘Giorni felici’. Lo scrittore irlandese non era certo propenso all’accordo con la BBC ma fu convinto da numerosi amici. Seguì la trasmissione in tv dal salotto di uno di questi conoscenti coinvolti nel progetto: il padrone di casa subito si arrabbiò con un altro dei presenti, che era poi il produttore televisivo ma Beckett volle bloccare subito la discussione dicendo che gli era piaciuto molto, e che era stato un lavoro veramente buono.

Con molta calma, più tardi, in separata sede, confidò ad alcuni che la sua opinione restava la stessa di prima che lo convincessero a cedere, e cioè che una ripresa televisiva del suo capolavoro era un controsenso: ‘Il mio dramma non è stato scritto per questa scatola. Il mio dramma è stato scritto per degli omini piazzati dentro uno spazio grande. In tv sono tutti troppo grandi rispetto allo spazio’. (da James Knowlson ‘Samuel Beckett. Una vita’, Einaudi 2002, trad.it. Giancarlo Alfano)    

Nelle foto di Mattias Horn per BE, varie scene di ‘Ivanow’ di Yana Ross

Nelle foto di Mattias Horn per BE, varie scene di ‘Ivanow’ di Yana Ross

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