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Coincidenze, intreccio e finali di un 'Ritratto' firmato Carnevali

Nella foto di Masiar Pasquali, Michele Riondino in ’Ritratto dell’artista da morto’.  

Fino al 6 aprile, a Milano, tra largo Greppi e la vicina via Rivoli, dove si affaccia l’uscita della MM2 Lanza, intorno alle 19.30 o alle 20.30, a seconda dei giorni, sarà facile notare le fila del folto pubblico che ha prenotato quasi tutti i posti per le repliche di ‘Romeo e Giulietta’ allo Strehlerone, per la regia del pluripremiato e riconosciuto Mario Martone, con un cast di giovanissimi attori, e di quello inevitabilmente più ridotto che s'assiepa per vedere ‘Ritratto dell’artista da morto’ al piccolo-piccolo, ovvero lo Studio Melato, con testi e regia di un solido autore-professore classe 1981, Davide Carnevali, e in scena il fu ‘Giovane Montalbano’ Michele Riondino. Per il gioco delle coincidenze: 1) si vedono tante facce giovanili, di là e di qui, esattamente come si diceva nei cenni di meraviglia per Trajal Harrell a FOG, in Triennale, e questo non può che far bene al teatro e alla città, e forse anche qualcosa di più ma non vorremmo esagerare.

Va notata per prima, anche se è la coincidenza 2), ma vale come una premessa, l’occasione preziosa offerta agli spettatori d’ammirare anche due scenografie che da sole valgono il prezzo del biglietto, e in qualche modo raccontano che cos’è ancora oggi la realtà ‘industriale-artigianale’ del glorioso Piccolo Teatro. Non ha certo bisogno di conferme l’arcinota e altissima maestria di Margherita Palli, che s’affianca al sempre validissimo cast tecnico di Martone, con in testa Pasquale Mari alle luci, piantando un albero da premio (così ne scrive un critico accademico, Nicola Arrigoni: ‘è un grande albero che occupa tutto lo spazio e assomiglia alle case fra le foglie che tutti hanno un po’ sognato da bambini. Fra i rami si svolge la vicenda, la festa a casa dei Capuleti, gli incontri fra Giulietta e Romeo. Ai piedi di quella grande casa sull’albero c’è una sorta di landa desolata, una terra di nessuno in cui si affrontano le due baby gang, in cui sangue e morte coesistono con l’energia vitale dei ragazzi. Sullo sfondo un cielo che muta e segna il passare del tempo in una vicenda in cui…’). E’ invece quasi una rivelazione, sul lato piccolo-piccolo, il lavoro di una bravissima scenografa e costumista di scuola berlinese, classe 1985, Charlotte Pistorius. E già qui l’intreccio, direbbe lo stesso Carnevali, si farebbe ghiotto, ma non ci si può disperdere subito e quindi valga come 2b), solo per inciso: la nostra Charlotte porta un singolare cognome (che a quasi tutti è noto per via dell’atleta para-olimpico Oscar e del suo delitto di San Valentino, ma evitiamo anche questo rivolo) ed è proprio omonima di una scrittrice e poetessa che a inizio Ottocento era di casa nei salotti dove si formava l’idea nazionale della Germania, Charlotte Helene Henriette Pritzbuer, poi diventata, appunto, Charlotte Pistorius, in quanto moglie del secondo figlio di Hermann Andreas Pistorius, teologo, filosofo, scrittore e intellettuale settecentesco di prim’ordine in Pomerania… 

Ne seguirebbe - ed eccoci a 3) - la spiegazione di quella dicitura interrotta ‘RITRATTO DELL’ARTISTA DA MORTO (GERMA..’, in neretto e tutto maiuscolo e con due punti soltanto, che viene stampigliata sui biglietti per lo spettacolo di Carnevali, che del resto ha esordito nel 2018 alla Biennale di Monaco per poi portarsi a Berlino. In originale, come si vede anche dal titolo del libro edito da Einaudi, tra parentesi si leggeva per intero ‘Germania ’41 - Argentina ’78’, anche se nell’adattamento in scena al Teatro Studio Melato diventerebbe propriamente ‘Italia ’41 - Argentina ’78’. Con indiscussa abilità Carnevali riscrive infatti questo suo testo sulla dittatura militare argentina adattandolo non solo al Paese in cui va in scena, ma anche proprio al luogo - da cui arriveremo, un attimo di pazienza!, alla coincidenza 4) -, inteso come la città e la sala stessa, per non dire poi di come il copione venga anche ricucito su misura del protagonista. In questo caso tutto ruota intorno al bravo attore, regista, autore, chitarrista e militante tarantino Michele Riondino, per il quale pure potrebbe valere quel ‘(GERMA..’ sul biglietto, in quanto evoca forse incidentalmente, più che inconsciamente, il modello del suo quasi coetaneo Germano, l’illustrissimo Elio sa va sans dire, e anche se quest’ulteriore coincidenza sembrerà un po’ tirata, non lo è affatto, per le analoghe multiformi passioni, nonché una certa quale insofferenza nei confronti della facile fama cinetelevisiva

Passando lesti a 4), c’è persino 'il teatro del teatro nel teatro', e lo spettatore di questo ‘Ritratto’ lo constata subito, perché impatta con alcune grandi casse d’imballaggio con stampigliato il logo Piccolo Teatro Grassi che stanno lì davanti all’appartamento di scena, proprio al centro della sala Studio dedicata a Mariangela Melato (un meraviglioso scrigno elisabettiano dove gli spettacoli si possono gustare come in pochi altri contesti). Senza spoilerare troppo, il Grassi e la sua storia di ex luogo di tortura dei repubblichini di Salò entrano in pieno nell’intreccio di Carnevali e anzi sono la base per il primo sostanzioso contro-finale. Si noti bene che qui abbondano copiosamente gli elementi narrativi che tornano e si largheggia anche di finali, pre e post e intermedio, se così si può dire. E in questo modo si spiega, tra l'altro, la curiosa indicazione temporale sulla locandina, 90’ più recupero, nel senso che può durare più o meno tanto il momento in cui Riondino porta giù dalle gradinate il pubblico e lo chiama a ispezionare di persona i ‘reperti’ scenici che vengono prima etichettati dagli assistenti di studio, ed è tutto un gran bel tocco di coinvolgimento, chapeau!

La sovrabbondanza di controfinali, il teatro del teatro nel teatro, un certo uso della telecamera, la forte valenza civile e politica…: per intenderci schematicamente, se Riondino ‘germaneggia’, viene da dire che il lavoro di Carnevali ricorda tanto il teatro di Milo Rau. E per concludere - senza nemmeno provarci a segnare la coincidenza 5) -, dopo questi aulici paragoni, che di per se stessi valgono come complimenti, un piccolo rimprovero in stile ‘manifesto di Gent’: il massimo rigore nel rispetto del vero, soprattutto in un Teatro Studio così raccolto come il Melato, prevederebbe voci e suoni più naturali possibili, evitando tra l’altro al malcapitato attore di turno di deturparsi il volto sulla destra con il microfono color carne e di aggravare il fondoschiena con il backpack nero sulla sinistra dei pantaloni…E siccome è di rigore anche un post-finale, va aggiunto che, se gli intrecci esondano in questo racconto che si gioca tutto sul parallelo tra un musicista italo-argentino desaparecido e un compositore italiano di origine ebraica eliminato dai nazi-fascisti, è ammirevole l’assoluta sobrietà di contenuto storico-politico del testo, che in fondo si limita a pochi tocchi di crudezza e a nessuno di facile propaganda, nonostante sia centrale l’argomento dei crimini più oscuri delle dittature.

Anche perché il messaggio di Carnevali, come s’evince bene al novantesimo minuto più recupero di questo ‘Ritratto’, e come dichiara lui stesso nell’intervista sul programma di sala, vuole essere prima di tutto meta-teatrale e diventare casomai per estensione politico, ed è legato al disvelamento della menzogna nella finzione stessa, che qui si fa addirittura autofinzione: ‘il mio obiettivo non è far credere allo spettatore che un’invenzione non sia tale, semplicemente perché vi ho inserito alcuni dettagli reali. È invece interessante il fatto che l’autofinzione possa produrre, parallelamente all’illusione di realtà, la coscienza della finzione: quando il pubblico riconosce che l’effetto illusorio di realtà è provocato ad arte, quando siamo in grado di far esperire al pubblico l’esperienza della costruzione fittizia, allora l’autofinzione acquista senso. Utilizzandola, rendiamo trasparenti le dinamiche che regolano l’illusione, sottolineiamo la facilità con cui siamo vittime dell’inganno e crediamo a certe storie, evidenziamo il fascino che tutte le storie esercitano su di noi, portandoci a confondere la narrazione con la realtà oggettiva’. 

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