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Con la sua Hamlet femminista e 'sublime', Christiane Jatahy mette Shakespeare nelle pieghe del tempo e si caccia nei guai

Amleto (Clotilde Hesme) stringe tra le sue braccia Ofelia (Isabel Abreu): s'intravede dietro Gertrude (Servane Ducorps). Foto di Simon Gosselin

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 Letta l’avvertenza, si promette a chi non è già passato oltre, massima sintesi e schematicità, invece delle solite sbrodolate. 

Dunque, a proposito del nuovo ‘Hamlet - Dans le plis du temps (d’après William Shakespeare’) di Christiane Jatahy:

 1. In ordine di vicinanza: perché questo ‘Hamlet’ non compare, almeno fino ad oggi, nei programmi dei teatri italiani? Dal nuovo debutto in ‘casa’, il 10 ottobre al Centquatre de Paris, si è aperta la seconda stagione di rappresentazioni, dopo la prima che era partita con il tutto esaurito all’Odéon Teatro d’Europa, sala tradizionale al 6° arrondissement. Eppure, non lo vedremo nemmeno al Piccolo Teatro, di cui pure Jatahy figura ‘artista associato’. Vi par possibile mettere così a tema il nesso patriarcato-violenza, con la versione tutta femminile e femminista di Amleto, nell’Italia teatrale pubblica ‘solo uomini al comando’?!? Altro materiale per…Amleta (l’associazione)! 

 2. Jatahy ha deciso di cimentarsi in questa prova che la riporta direttamente al periodo della sua affermazione internazionale, agli anni dopo il 2014, con la versione incantevole delle ‘Tre sorelle’ (‘E se elas fossem para Moscou?’, E se andassimo a Mosca?). Ha fatto questa scelta sulla soglia di una maturità artistica e umana felicissima, ma anche sofferta, costellata da critiche ingenerose. Non sono stati tutto rose e fiori, dal Leone d’Oro nel ’22, che ha segnato il suo quasi-ritorno in scena, nella parte di se stessa, con ‘O agora que demora’ (Le Presente qui Dèborde); soprattutto dopo la trilogia brasiliana, quasi doverosa in epoca Bolsonaro, ma in Europa poco compresa. Il plotone di fucilazione dei critici francesi, perciò, l’aspettava di nuovo al varco. E la salve di colpi è partita puntualmente, purtroppo con qualche eco spiacevole in lingua tedesca e persino sul ’The New York Times’ (‘un atto di sfida femminista senza un chiaro obiettivo’ era il giudizio finale della solita cattivissima Laura Cappelle, che pure ne ha scritto un po’ anche bene).

 3. E dire che questo ‘Hamlet’ vale tantissimo, fosse anche soltanto per alcuni tocchi strepitosi di tecnica, di stile e di effetto teatrali, a partire dall’eccezionale livello di recitazione delle protagoniste, che è stato viceversa usato per criticare la regista. In fondo Jatahy s’è ripresentata esattamente come si pretende da una regista-autrice ‘politica’, non d’intrattenimento, ‘militante’ pure delle emozioni e della bellezza, sì, ma con il fine della ‘verità’. Capace di far rivivere nel presente i classici, con un approccio che la affratella a Milo Rau, seguendo la lezione dei maestri, nel suo caso il regista e formatore José Sanchis Sinisterra (1), ma pure Jerzy Grotowski che predicava: ‘dobbiamo lottare contro i testi facendo riferimento alle nostre esperienze contemporanee’.

 4. Il guru del ‘teatro povero’ non aveva dubbi sulla responsabilità di chi affronta Shakespeare: ‘il mondo è teatro, sì, nel senso che dobbiamo attraversalo e renderlo un luogo di verità’. E Jatahy accende la ‘sua’ luce di verità sul nesso profondo tra il maschile-patriarcale e la violenza, rigettando la lettura canonica di Amleto in una maniera radicale (altro che l’orrore di Harold Bloom per la versione minimalista di Peter Brook). E qui la nostra Chris si avvicina appunto al ‘canone grotowskiano’, se mai si può dire così: ‘non esiste un Amleto oggettivo, è un’opera troppo grande’, ripeteva Grotowski, già da quand’era a Opole. ‘E’ inutile continuare a interrogarsi su chi era davvero Amleto; il problema più importante è: che tipo di Amleto possiamo ritrovare nella nostra vita? E quali verità posso esprimere?’

 5. Grossomodo Jatahy ha scelto di collocarsi sul versante del messaggio di fondo del neo-femminismo, prima di tutto spostando l’azione dentro a un dramma borghese contemporaneo, in un interno di casa degli anni Venti, con un uso sobrio delle telecamere dal vivo per mostrare il lato nascosto (bagno e giardino), riducendo all’essenziale anche la componente cinematografica, che in altri lavori aveva quasi preso il sopravvento. Per il resto, no spoiler, nella speranza di rivederlo in Italia. Bisogna dire ancora almeno delle tre attrici principali: l’eterea performer Isabel Abreu, volto del teatro di Tiago Rodrigues, fa volare Ofelia fuori dallo stereotipo; una straordinaria Servane Ducorps, che si becca il carico da 90 e fa tutto il lavoro sporco della pièce, interpreta una calda Gertrude; e per la divina protagonista Clotilde Hesme - di casa al 104, dove è annunciato un suo nuovo spettacolo cult - vale la didascalia che l’adorante ‘Libération’ le ha dedicato: ‘Figura androgina vestita di nero, interpreta il Principe di Danimarca in tutta la sua affascinante complessità’.  

 6. Ecco, sì, alla fine riemerge per un attimo la tradizionale lettura del personaggio più famoso del teatro moderno come una personalità insieme rivoluzionaria e indecisa. E’ solo qualche cenno di quel monologo finale, da brividi, in cui la superba Hesme esce da Hamlet, si avvicina al pubblico fino a sfondare ‘la quarta parete’, e mostra tutta la sua fragilità con disarmata confidenza. E quando, dopo i primi giri d’appalusi, appare un attimo sul palco anche Jatahy, trascinata per mano da Clotilde, viene spontaneo leggere in controluce anche la sua posizione attuale, di una donna di teatro forse alle prese con il cosiddetto ‘settimo stadio’, per dirla con le soglie della vita dello psicologo Erik Eriksson: ovvero nel punto esatto in cui la maturità porta all’alternativa secca tra ‘generatività e stagnazione/auto-assorbimento’.

 7. Per quanto riguarda la prima opzione erikssoniana del grado 7, sembrava agli appassionati più complici che con ‘Depois do Silêncio’ - e, in fondo, il ritorno della democrazia nel suo Brasile - Jatahy potesse orientarsi decisamente verso una nuova vita appunto ‘generativa’. Ma diventare un po’ anche direttore-formatore-talent scout, come il suo maestro spagnolo o come il collega svizzero-tedesco che l’ha voluta con ‘Hamlet’ in apertura delle sue prime Wiener Festwochen, è un bel problema per una donna. Non a caso si possono citare esempi del genere giusto nella danza contemporanea. 

  Il che, alla fine, porta a dire che Jatahy ha avuto due volte ragione a fare attraversare il tempo ad Hamlet in questo modo apparentemente così ‘insano’, neo-femminista.

E, peraltro, ha mostrato di nuovo quanto può essere appunto 'generativa' la sua bravura di regista e creatrice, anche solo per aver trasformato un talento attoriale in maturazione come Clotilde, che da top model 15/16enne ‘non è finita tra le grinfie del Moloch Epstein per un soffio’ (sempre da ‘Libé’), in una sorta di Sarah Bernardt del 2025. 

 Se li sognerà a lungo applausi e consensi così, la mirabile Hesme, e c’è da giurare che quei drastici cambi di tono che Jahaty le ha insegnato ad affrontare - da applausi a scena aperta il primo più impegnativo, con un salto dentro la voce maschile del padre, per giunta cantando 'Can't Take My Eyes Off You' - avranno fatto la gioia anche dei suoi due bambini a casa.


Clotilde Hesme in un altro momento della prima di 'Hamlet' di (foto di Simon Gosselin)

(1) Una sola citazione per inquadrare José Sanchis Sinisterra, che per anni è stato anche il principale collante tra Spagna, Europa e teatro sudamericano: ‘Dico sempre che sono cinque i maestri a cui ritorno permanentemente: Bertolt Brecht (il primo), poi Franz Kafka, che mi liberò dal didattismo e dal dogmatismo e che mi permise di accostarmi meglio a Samuel Beckett, il quale a sua volta mi condusse ad Harold Pinter (che considerava a sua volta maestri Beckett e Kafka). Il quinto che porto con me da tutta la vita è l’argentino Julio Cortazar, narratore, poeta e pensatore… Il Narratore è stata una grande rivoluzione per la mia forma narrativa (…). Nei testi di Beckett incontrai la teatralità di quello che in teoria narrativa si chiama narratore poco affidabile, quindi non puoi assolutamente fidarti del narratore, perché è in continua contraddizione, e se questo viene visto con occhi teatrali abbiamo un personaggio che ti obbliga a diffidare delle sue parole e dei suoi racconti’.

Armamentario del cronista per la prima di 'Hamlet' al 104Paris: accredito personalizzato e, prima, messaggio 'Nous vous remercions pour votre intérêt...'. Trois fois merci à Agathe, Jeanne et au directeur José-Manuel Gonçalvès

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