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Con FC Bergman nella terra di Nod, lo spettro dello smeraldo è davvero saturo

'Het land Nod', foto di Kurt Van der Elst

 Giusto due o tre ospiti veneziani della Biennale, eleganti e variamente ingioiellati, si sono distratti qualche volta durante l’incredibile ora e venti senza parole di ‘Het land Nod’ (La Terra di Nod) del collettivo belga FC Bergman, creazione originale del 2015 rappresentata abbastanza di rado e per la prima volta in Italia. 

 Per il resto, nel capannone della periferia industriale di Mestre dove per due sere è stata allestita la colossale scenografia, tra gli spettatori che avevano affrontato la pur complessa trasferta da San Marco e qualche decina di minuti d’attesa, si sono sentiti solo scambi di pareri a bassissima voce su quel che succedeva in scena, risate, mormorii di approvazione, molti ‘ooohhh’ di stupore e qualche brivido di paura al momento opportuno. 

 Degno di nota, prima di un interminabile giro di applausi, solo il piccolo incidente sfiorato a un certo punto, quando il presidente della Biennale Roberto Ciccuto ha richiamato da dietro il curatore Ricci, che sedeva al centro, in terza fila dell’improvvisata platea, sussurrando più volte ‘Stefano’ e indicando con aria di censura una signora in seconda fila che aveva impugnato il cellulare e stava girando il video di una scena chiave. 

 Ricci non se n’era nemmeno accorto, talmente concentrato a seguire con passione la messa in scena dei belgi insigniti con il Leone d’Argento: poi s’è distratto giusto dieci secondi, risolvendo il problema con un deciso tocco della mano sinistra sulla spalla alla documentatrice abusiva, uno sguardo seccato e un cenno di diniego col capo.

 Peccato che il presidente Ciccuto sia in scadenza di mandato, in fondo è uno che sembra curarsi così tanto delle sue Biennali. Gli addetti ai lavori temono che il governo di destra-centro faccia volare su Venezia un qualche nome di area ex-post-fascista, magari veloce quanto un caccia Spitfire o un fervente dannunziano, come il nuovo direttore della Rai.

 Così c’è già chi prevede che nel teatro si ricominci da una triste autarchia classicheggiante, che vuol dire tanto Goldoni, forse un po’ di Pirandello e per gli eventi esterni, altro che performance dei nuovi maestri fiamminghi in un capannone dietro il carroponte di Fincantieri: è un attimo che magari riattaccano all’isola di Sant’Elena la piattaforma per ‘La nave’ del Vate, con la benedizione del dicastero competente, ‘per l’alto significato nazionale del contenuto profetico e poetico’ dell’opera veneziana di Gabriele D’Annunzio, come si leggeva su un dispaccio della Stefani nel 1938.

 Può sembrare una divagazione non pertinente, mentre invece questa meravigliosa performance dal titolo biblico (Nod è la terra, a oriente dell’Eden, dove si rifugia il fratricida Caino, cioè il nostro mitico progenitore) introduce proprio direttamente al cuore del problema dell’identità culturale e politica dell’Europa e degli europei. Forgiata anche dai 'Barokke Influencers', ardito titolo della mostra allestita in questo stesso periodo ad Anversa su 'I gesuiti, Rubens e l'arte della persuasione'. 

 Al centro del racconto, costruito con una sequenza di scene davvero aggraziata anche se rappresentano il progredire di una grottesca distruzione, c’è il grande quadro della Crocifissione ‘Il Colpo della Lancia’, rimasto nella galleria Rubens del vecchio museo di Anversa. Il salone dell'edificio, che in effetti fu veramente bombardato, qui viene ricostruito tale e quale era rimasto alla vigilia della ristrutturazione.

 Sembra non esserci modo di far passare dalle porte il dipinto, che è l’ultimo da trasportare fuori dalla stanza più prestigiosa, in attesa - si presume - di essere ricollocato nel nuovo museo delle Belle Arti. 

 Il quadro-pretesto racconta l’episodio evangelico in cui un soldato romano trafigge al fianco il cadavere di Cristo (non osando spezzargli le ossa delle gambe come invece si usava per finire i crocefissi, compresi i due ladroni lì accanto), che è anche il momento in cui questo centurione romano cieco torna a vedere, per il miracolo degli schizzi di sangue e acqua dal costato di Gesù, e decide di convertirsi, stando al racconto degli Atti degli apostoli apocrifi.

 La sala del museo viene man mano distrutta da un folle impiegato (una sorta di strepitoso nuovo Tati, Stef Aerts, ma sono tutti bravissimi) che vuole riuscire finalmente a spostare anche questo Rubens. S’intersecano poi varie vicende, altrettanto allegoriche, tra cui una visita di corsa al Louvre ispirata esplicitamente a una scena di un film di Jean Luc Godard e una storia d’amore alla ‘Julies et Jim’, ma si possono intuire altre citazioni, per esempio dal teatro-danza di Pina Bausch.

 Con uno stile decisamente utopistico e folle, di un’assoluta linearità pur nell’apparente incoerenza, FC Bergman costruiscono uno spettacolo dove non si dice niente eppure si parla di tutto, e i riferimenti al presente storico sono molto più ficcanti di quanto si possa immaginare. 

 Tutti gli spettatori di questa Biennale che ha subito mantenuto la promessa del titolo ‘Emerald’, faticano a uscire e a smettere d’applaudire, tanto si sentono arricchiti da un’esperienza teatrale di questo livello, che diverte e appaga ma alla fine pure inquieta i più sensibili. 

 Intorno si vedono tanti bei sorrisi raggianti di soddisfazione. Soltanto una giovane donna ammette d’essersi persino commossa fino alle lacrime, a un certo punto. 

 Non sembra certo il tipo con cui chiosare: è il teatro, bellezza.

 Il teatro come purtroppo capita ormai poche volte di poterlo ancora vivere così.

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