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Conosceranno finalmente un 25 aprile anche a Teheran? 'Le mie tre sorelle' e la bellezza etica del teatro iraniano in esilio a Milano

Sadaf Baghbani al Teatro Parenti in 'Le mie tre sorelle' di Ashkan Khatibi

 E’ una doppia sorpresa assistere a una rappresentazione che si presenta come un imperativo morale - che lo spettatore appassionato e impegnato sceglie di andare a vedere quasi ‘a occhi chiusi’ - e trovare poi che non solo risponda pienamente all’aspettativa del richiamo politico, ma che sia pure costruita con un gran bel linguaggio teatrale, e quindi davvero eticamente inappuntabile. 

 E’ il caso della proposta ispirata a Čechov ‘Le mie tre sorelle’, che in realtà racconta una storia vera di lotta e opposizione al regime clericale islamista e che in questi giorni, fino al 28 aprile, è in scena alla Sala Blu del Teatro Parenti.

 Si soffre, si ride e si piange, davvero, per esplodere in un applauso che vuol esprimere l’abbraccio ideale ai protagonisti. Questo risultato emotivo già basterebbe a raccontare tutto, anche perché lo spettacolo richiede un ingaggio tutt’altro che banale, seppur di un’ora soltanto: è molto parlato, a tratti persino veloce ritmato rap, ed è quasi tutto in lingua farsi, con sottotitoli italiani a volte fittissimi e non proprio così leggibili.  

 Andando al punto, in sintesi, ‘Le mie tre sorelle’ è un esempio da non perdere dell’autenticità che il dramaholic persegue nella sua ricerca di emozioni artistiche. Ovviamente, il primo motivo è già tutto scritto in locandina, proprio sotto il titolo, ed è la frase di rito: ‘basato su una storia vera’. 

 La realtà è sempre l’ingrediente migliore, in particolare se appena appena condita con elementi letterari tratti da un autore come Čechov, che di quotidianità reale delle persone se ne intendeva parecchio. 

 La regia e la sceneggiatura sono di un personaggio di rilievo della scena iraniana, ora esule in Italia, Ashkan Khatibi (1), che alla fine della prima è voluto salire sul palco per ringraziare il pubblico e tutti quelli che lo stanno aiutando, in primis Andrée Ruth Shammah che lodevolmente produce lo spettacolo.

 Lo stile di Khatibi risulta particolarmente efficace perché essenziale, decisamente di taglio internazionale contemporaneo, sapiente nei dosaggi di genere e nel ritmo, eppure seducente e immaginifico. 

 Lo spettacolo è cucito addosso alla protagonista, Sadaf Baghbani, che racconta la sua storia drammatica di vittima dell’oppressione del regime nonché di una situazione familiare e ambientale non proprio invidiabile, ma riesce a farlo con notevole lucidità e freddezza, da attrice consumata, anche se in realtà è alla prima prova di una certa importanza.   

 Non ha nemmeno trent’anni Sadaf e ora vive in Italia, dove è riuscita un po’ anche a curarsi le ferite che porta addosso da quando, il 4 novembre 2022, partecipando alla manifestazione per una ragazza uccisa qualche giorno dopo Mahsa Amini, è stata colpita, più volte, dai proiettili sparati dal Corpo delle guardie della Rivoluzione islamica per disperdere gli oppositori. Alla fine è tornata a casa con centocinquanta pallini in corpo, alcuni vicino agli organi vitali.

 Prima di scappare a Milano Sadaf non era mai uscita dall’Iran, dove si era esibita come attrice soltanto nel teatro underground a Teheran, nelle recite clandestine che sono organizzate negli angoli nascosti dei parcheggi e nelle cantine.

 E soltanto alla fine de ‘Le mie tre sorelle’ Sadaf rompe il labile confine dell’identificazione tra ruolo e protagonista, dinanzi agli applausi e all’entusiasmo del pubblico, quando scoppia in un pianto liberatorio. Del resto è pur vero che il crescendo finale emotivo dello spettacolo è notevolissimo.

 Senza rovinare niente a chi decidesse di andarlo a vedere, aggiungiamo soltanto che prima dell’entusiasmante epilogo, c’è un particolarissimo cambio scena che serve ad ambientare perfettamente il momento di convivialità notturna tra le sorelle (e l’evocazione del sogno di ‘andare a Mosca’, che poi è Roma, nel caso specifico) e costruire un passaggio da dieci e lode, con voto esteso anche ai costumi di Delshad Marsous e alla scenografia di Taher Nikkhah.

 In scena, a interagire perfettamente con la protagonista che è anche l’io narrante, si muovono poi Saba Poori, Nazanin Aban e Taher Nikkhah. Un tocco decisamente indovinato viene anche dalle canzoni tradizionali eseguite dal vivo della cantante Sahba Khalili Amiri, che in qualche modo costituiscono l’involucro e il contrappunto alle varie incursioni rap delle performer.

 Non perdete questo appuntamento, anche se uscirete come tutti con il senso di colpa per l’indifferenza piuttosto diffusa in Occidente nei confronti del tragico destino d’oppressione delle nostre sorelle e dei nostri fratelli iraniani. 

Una scena di 'Le mie tre sorelle' di Ashkan Khatibi al Teatro Parenti di Milano

(1) LA STORIA DI UN REGISTA IN FUGA

(Intervista di Ashkan Khatibi con Valentina Kolosimo per ‘Vanity Fair’)

 Come funziona il cinema in Iran potrebbe essere il soggetto di un film da realizzare ovviamente solo fuori dal Paese. Se non fosse tutto tragicamente vero, farebbe anche ridere.

«Prima di tutto devi avere i permessi: la sceneggiatura deve essere approvata dal ministero. Se hai l’ok, sul set vengono persone del regime a controllare ed è un disastro: per esempio, se stai girando una scena per strada e sullo sfondo spunta una donna con il velo messo male, si deve rifare tutto. E le regole. Ce ne sono un sacco. Il protagonista deve avere un bel nome musulmano, l’ideale è Mohammed o Alì. I cattivi non si possono mai chiamare così, meglio nomi ebrei tipo David. Le donne non possono correre, altrimenti si vedrebbero i seni che fanno su e giù. Devono andare a dormire con il velo in testa, ma ci sono anche delle differenze: nei film per il cinema l’hijab può scoprire il mento, in tv assolutamente no. Niente leccalecca o altri oggetti allusivi. Ma non è finita qui: una volta che il film è montato devi portarlo al ministero e in una sala c’è un gruppo di persone che lo guardano e se ne escono con le idee più assurde. “Quella mucca in mezzo alla strada rappresenta noi?”, mi hanno chiesto una volta. Ovviamente no. Ma magari ti fanno togliere interi pezzi».

A fornirci lo specchietto delle regole del sistema del cinema iraniano è il «freedom fighter» Ashkan Khatibi, seduto al tavolo di un ristorante di Milano, dove vive da otto mesi dopo essere scappato dal regime che lo aveva preso di mira. Qui, al teatro Franco Parenti, dal 23 aprile porta in scena uno spettacolo che ha scritto e che dirige, 'Le mie tre sorelle'.

Quarantaquattro anni, Ashkan non è un semplice attore e regista iraniano: in patria è uno dei più famosi del panorama cinematografico e televisivo, protagonista di 'Khatoon. Once Upon a Time in Iran', serie tv ultrapopolare nel Paese.

Insomma è una celebrity.
«Sì, mi capita di essere fermato per la strada anche qui, è successo pochi minuti fa, da un ragazzo iraniano tutto stupito: Che ci fai qui?, mi ha chiesto».

Ci risponda.
«È una storia lunga, che parte dal 2009, dal Green Movement che credeva nel riformista Mousavi: pensavamo davvero che ci avrebbe salvato, prima che Ahmadinejad rubasse i voti. Ma in quei giorni eravamo in milioni a protestare. È stata la prima volta che sono stato picchiato per strada. Con un gruppo di sceneggiatori e registi scrivemmo una lettera a Khamenei, perché all’epoca eravamo ingenui: pensavamo davvero di essere ascoltati. E invece ci bannarono».

In che cosa consiste il ban?
«Non potevo lavorare, viaggiare, fare affari, comprare una casa. Niente. Per sei mesi sono stato a casa a fare niente. Finché un regista tedesco riesce a portarmi a lavorare in Germania. Dopo quattro anni mi chiamano dal ministero iraniano dell’Arte: mi dicono che posso tornare, che non ce l’hanno più con me».

Ed è così?
«Sì, mantengono tutte le promesse: mi mettono a disposizione il teatro più grande di Teheran, dove lavoro per mesi in un musical, guadagno un sacco di soldi, mi sposo. Una vita perfetta all’apparenza».

E poi?
«Poco alla volta capisco di essere diventato un piccolo ingranaggio del regime. Insegnavo teatro ai ragazzi, così ho iniziato a sostenerli, ad amplificare la loro protesta sui social. Ma il giorno dopo la morte di Mahsa Amini (la ragazza uccisa nel settembre del 2022 perché non portava correttamente l’hijab, dalla cui morte sono partite le proteste, ndr) qualcosa cambia. C’è un interrogatorio, ma non di quelli “educati” a cui ero abituato».

Racconti.
«Mi prelevano sotto casa, mi incappucciano e portano in una sala dove resto tutta la notte. M picchiano, dileggiano, accusano, tra le altre cose, di insulto a Dio, una cosa gravissima per cui si rischia la pena di morte. Mi obbligano a firmare un foglio in cui mi dichiaro colpevole. Un tizio mi dice: ti stai rovinando la vita da solo. È un avvertimento».

Aveva paura?
«Moltissima. Poi succedono anche cose assurde. Una guardia mi chiede un selfie. A un certo punto mi lasciano davanti a un tizio con gli occhiali scuri che sta zitto per un’ora. Tutto surreale. Ma soprattutto quella notte ho sentito che era il momento di lasciare il Paese: se vanno a prendere una celebrity, chissà cosa faranno alle persone comuni».

E poi cosa succede?
«Ci sono altri interrogatori, alcuni folli: in uno, tre mullah raccontano barzellette sporche. Intanto riesco a ottenere un visto per me e uno per mia moglie all’ambasciata spagnola. Mia moglie però vuole restare in Iran, poi pensa di partire ma non subito, quindi il piano è questo: io vado in Turchia, e poi ci ritroviamo in Spagna due settimane dopo. Ma non funziona: mia moglie non riesce a partire».

E lei cosa fa?
«Io intanto sono riuscito a fuggire in Turchia, da lì aspetto che la situazione si sblocchi, ma niente. Dopo tre mesi, scade il mio visto turco, quindi mi nascondo in casa per dieci mesi».

Dieci mesi?
«Sì, ero completamente solo. Uscivo per venti minuti ogni due settimane di notte, per non impazzire. È stata durissima. Vivevo in un appartamento al sedicesimo piano, ho pensato di togliermi la vita parecchie volte. Poi decido di reagire. Da lì aiutavo già tanti iraniani a uscire dal Paese, raccoglievo fondi, mi davo da fare. Così scrivo un testo teatrale sulla mia storia. Nessuno voleva aiutarmi, ero bloccato lì, finché, grazie a un video di Luca Bizzarri sui dissidenti iraniani, entro in contatto con alcuni registi teatrali italiani come Davide Livermore e con il traduttore Michele Marelli e il direttore artistico del Festival del cinema di Venezia Alberto Barbera. Do un’intervista al Corriere della Sera che smuove le acque, anche il ministro degli Esteri italiano mi dà una mano. Alla fine riesco ad avere il visto italiano ed eccomi qui».

A Milano comincia la nuova vita.
«Io sono grato all’Italia, perché è stato l’unico Paese ad aiutarmi, non solo a scappare ma anche a tornare sul palco, a fare il mio lavoro. Ho scritto questa pièce teatrale, Le mie tre sorelle, che ora, grazie ad Andrée Ruth Shammah (regista e direttrice artistica del teatro Franco Parenti, ndr) va in scena a Milano. È la storia di Sadaf Baghbani, una ragazza a cui le guardie della Rivoluzione hanno sparato 150 pallini nel corpo perché era andata alla cerimonia per la morte di Hadis Najafi, uccisa qualche giorno dopo Mahsa Amini. Il teatro è la forma più potente per portare avanti la nostra causa qui e farvi capire cosa subiscono le ragazze iraniane oggi: ieri ne è stata uccisa un’altra perché girava senza velo».

È preoccupato che scoppi un conflitto tra Iran e Israele?
«Nessuno più di noi iraniani oggi sa cosa vuol dire andare in guerra, ne abbiamo avuta una negli anni ’80 con l’Iraq: nessuno ne vuole un’altra. E nessuno vorrà andare a combattere: se proprio obbligano le persone, raccatteranno un esercito di 5mila soldati al massimo. Il nostro popolo non è nemico di Israele, lo è solo il regime, che però è sostenuto da una piccola minoranza, il 10 per cento della popolazione: un 45 per cento è disimpegnato, e il restante 45 per cento lo odia. In tanti però oggi pensano che un conflitto con Israele indebolirebbe il governo».

Lei continua a combattere da qui.
«Faccio tutto quello che posso. Se ho questo legame speciale con la mia gente è perché sono stata l’unica celebrity a lasciare tutto quello che aveva: ero milionario, avevo una vita lussuosa. Mi hanno preso tutto».

Un trauma?
«È stato uno shock, inutile negarlo. Vado in terapia, soffro di disturbo da stress post-traumatico. Ma poi penso che sono stato così fortunato a trovare un posto in cui posso lavorare e da cui posso continuare a combattere per la libertà».

Sua moglie le manca?
«Moltissimo. Abbiamo dovuto divorziare, perché non volevo che finisse nei guai per colpa mia».

Cos’altro le manca?
«I miei studenti. Sono stati loro a farmi prendere davvero coscienza. La generazione Z farà cadere il regime, ne sono certo. Per la mia generazione, il massimo era esplorare ciò che non era permesso sotto la dittatura: per loro invece questo non basta, vogliono una vita migliore e hanno un coraggio enorme che in qualche modo ti contagia. Anche se non vuoi, loro ti coinvolgono nella lotta. E scriva questa cosa importante: la rivoluzione non è finita. Non ci sono manifestazioni, ma ogni giorno ci sono gesti di ribellione civile, ogni giorno queste ragazze rischiano di subire violenze o di essere uccise perché escono di casa senza hijab. Ma il regime è come un globo di metallo con la gente dentro: ci sono le prime crepe. È solo questione di tempo».

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