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Coraggio, ibernate Umberto Orsini, per salvare il teatro nel Paese degli ultravecchi

Umberto Orsini in scena con Franco Branciaroli in 'Pour un oui ou pour un non' (foto Amati Bacciardi): insieme ora preparano 'I ragazzi irresistibili'

 C’è qualcosa di assolutamente surreale nello pseudo-dibattito che ‘La Lettura’ ha tentato di animare invitando i principali esponenti della scena italiana a intervenire sul tema del declino culturale del teatro.

 A lanciare il sasso è stato il ‘riverito maestro’ Franco Cordelli, esimio letterato e critico, formatosi alla fine degli anni Sessanta, quanto persino i poeti delle avanguardie, come tutti gli intellettuali, godevano anche di uno statuto sociale riconosciuto.

 Cordelli ha bene argomentato, da par suo, la crisi in cui versa il sistema teatrale italiano, ma non ce ne sarebbe stato nemmeno bisogno, talmente è evidente che parliamo di un mondo che ormai non sembra affatto guardare all’orizzonte culturale, ma solo alle logiche di sopravvivenza e di scambio.

 Ovvio che ci si riferisce al teatro istituzionale, che gode ancora di notevoli finanziamenti pubblici nonché di una sorta di rendita di posizione legata a passati splendori.

 Si tratta di un ambiente soffocante, relazionale, impermeabile. 

 Non è una specificità del teatro e nemmeno solo della cultura italiani, eppure ci sono Paesi europei dove la situazione è ancora migliore e in definitiva molto più sana, come dimostra anche solo la diversa apertura e disponibilità al dialogo dei protagonisti della scena. 

 Nelle risposte quasi sdegnate scritte dai maggiorenti dei teatri che hanno accettato l’invito de ‘La Lettura’ dopo l’intervento di Cordelli, fa impressione la debolezza degli argomenti, per esempio il contrattacco diretto e retorico allo stato della critica.

 Certo, quel poco che resta della critica teatrale avrà una quota parte di responsabilità nel degrado, ma come è noto viene ormai diretta e indirizzata dalle istituzioni stesse, che hanno potuto sussumerla nel sistema, attraverso una rete di legami che sono addirittura sfacciati e muovono dal livello ‘alto’ riconosciuto degli esperti, quello universitario.

 Così capita che il tale cattedratico - diciamo il peccato e non i peccatori -, impegnato in un’attività culturale direttamente con il tale teatro, possa poi scrivere entusiasticamente dello spettacolo-novità della stessa istituzione. E lo faccia sia sul primario supplemento culturale del tale giornale, sia sul sito pseudo-cult che si pone come punto di riferimento ‘alternativo’.

 Naturalmente non è detto che il critico professore di cui sopra abbia davvero visto lo spettacolo, o sia rimasto in sala per tutto il tempo, ma questo è un altro discorso. 

 Volendo, anche il grande maestro Franco Quadri - per citare il caso più importante - era profondamente dentro il mondo del teatro di cui scriveva e insegnava. Tra l’altro, spesso e volentieri la sua poltrona in platea restava vuota e nessuno può calcolare quanti e quali spettacoli abbia davvero seguito con interesse dall’inizio alla fine. 

 Ma stiamo parlando di tutt’altra stagione, peraltro non priva di difetti, soprattutto per i periodi di strapotere e declino delle varie straordinarie personalità egemoniche.   

 Tornando allo pseudo-dibattito di oggi su ‘La Lettura’ c’è anche chi ha dimostrato una qualche disponibilità a entrare davvero nel merito, per esempio Nino Marino, direttore del Teatro Stabile dell’Umbria, che dopo aver legittimamente vantato i buoni risultati sul piano del rinnovamento della sua istituzione, ha ammesso alcuni difetti capitali del teatro italiano.

 Marino ha sottolineato come prime due lacune di notevole importanza: il mancato sforzo per formare ‘un pubblico più esigente e attento’ e la scarsa apertura alla scena internazionale.

 L’ostinato provincialismo del teatro italiano è un vizio che tutti noi ‘dramalohici’ soffriamo in modo particolare, tocca aspettare la pubblicazione del programma di Transart Bolzano per vedere se ci sarà una nuova data italiana di Jan Lawers e Need Company, piuttosto che bisognava andare alla Biennale di Venezia nei giorni giusti per recuperare gli spettacoli fuori dal coro di Yana Ross o di Mattias Anderson.

 Il peggiore degli alibi è quello relativo al consenso del pubblico, esibito in quasi tutti gli interventi, fino alla disarmante sincerità del responsabile del Teatro del Friuli Venezia Giulia, Stefano Curti, che partendo dalla massima di un impresario teatrale inglese (‘il nostro mestiere è mettere culi sulle sedie’) arrivava almeno a proporre di sforzarsi per cercare pubblici più vari possibile. 

 In ogni caso, basta scorrere i bilanci di un ente teatrale di primaria importanza, che magari si fa vanto di avere le sale piene, per scoprire che le spese di marketing sono pari almeno al 10-12 per cento del giro d’affari: bisognerebbe poi dividere l’importo per il numero di spettatori, e con un sommario calcolo d’investimento pro-capite, si scoprirebbe magari che la promozione è costata quanto il biglietto.

 In sostanza, il pubblico in qualche modo si può catturare, con i rischi del caso: a volte capita di vedere che sono vuote fin dall'inizio tante sedie già vendute agli abbonati, per non dire di quante subiscono lo stesso destino nel caso di un intervallo: non a causa d’un’epidemia influenzale ma perché la visione diretta e il passaparola ridimensionano anche lo spettacolo più strombazzato.

 Se il problema fosse solo riempire dignitosamente le sale, in Italia sono ancora vivi e operanti protagonisti esemplari nel conciliare il tutto esaurito con il livello artistico, basti pensare al Grande Vecchio Umberto Orsini, che è nato nel 1934 e lavora più di un trentenne in carriera. 

 Sia ben chiaro che anche tanti ‘dramaholici’ vanno più che volentieri a vedere e ad applaudire convinti le produzioni della sua compagnia, per esempio quando si tratta degli spettacoli del nostro Massimo ‘capocomico’ odierno, di nome e di fatto, ovvero Popolizio.

 E’ pur da considerare che l’Italia nel 2025 raggiungerà il Giappone nel nascente club dei Paesi cosiddetti ‘ultravecchi’, con un quarto della popolazione di over 65, e nel 2050 diventeranno presumibilmente quasi il 40 per cento (a fronte di una riduzione dei giovani a quota 5,8 milioni, da 7,2 che sono oggi). 

 Ma questo dovrebbe essere casomai un motivo in più per ripensare il teatro, togliendolo dal fasullo appiattimento sul pubblico e dalle conseguenze inevitabili di mediocrità.

 Certo bisognerebbe riscrivere le regole di accesso ai finanziamenti, vietare tassativamente incroci e conflitti d’interesse malsani, aprire le finestre delle istituzioni (o sprangarne almeno un po’), puntare di più sulle compagnie e sulle intelligenze collettive, istituire dei sistemi d’ascolto del pubblico e degli appassionati. 

 Potrebbe anche succedere, prima o poi; l’attuale maggioranza politica, in fondo, ha un certo interesse a cambiare tutto, invece che farsi inglobare da un sistema dove sono di casa le lobbies da sinistra Ztl.

 Nel frattempo, non resta che ibernare Orsini, per davvero, e forse anche Franco Cordelli (classe 1943). 

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