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Piccola cronaca dell'ultima Tebe a Parigi, cerimonia degli addii dell'Odin Teatret

 A volte l'aria delle grandi occasioni si può tagliare dentro l'umidità di una sera uggiosa di novembre, soprattutto se l'appuntamento è  nel parco dietro il castello di Vincennes, sulla Route du Champ de Manœuvre, più precisamente ai margini del complesso de La Cartoucherie di Parigi, che oggi ospita cinque teatri, a partire dal famoso Theatre du Soleil. Eugenio Barba, per l'ultimo spettacolo dell'Odin Teatret, ha scelto proprio la casa gemella di Ariane Mnouchkine, del resto insieme fanno centodieci anni di militanza nel teatro d'avanguardia. E figurarsi se, pur in un luogo teatrale alternativo come il du Soleil, il vecchio apolide salentino si fa smontare la sala principale: per l'Odin, che ha un linguaggio teatrale rigorosamente spoglio e orizzontale, giù dal palco in mezzo al pubblico, che ha bisogno spazi dove le poltroncine possono essere tolte, basta e avanza la Petite Salle disadorna e vuota, in genere adibita alle prove, con due spalti di servizio. Così, scendendo dalla navetta che collega La Cartoucherie alla fermata Chateau de Vincennes della metropolitana 1, bisogna entrare e non farsi distrarre dal flusso principale, che in questo novembrino sabato 19 nella capitale francese è alimentato dagli spettatori che si dirigono invece nel teatro De la Tempete, per vedere un cult-cabaret intitolato 'Anais Nin au miroir', sic.

 Seguendo una serie di cartelli con il manifesto di 'Thèbes at the time of yellow fever' in inglese singolare, piantati negli angoli dei vialetti bagnati, s'arriva in fondo dove uno s'immagina che ci sia solo qualche magazzino e invece finalmente s'intravedono due bagni chimici dipinti di rosso e la luce che esce da un bancone da buffet genere festa di paese, con due o tre tavolate per gli ospiti, allestito dentro un tendone trasparente. A parte i due vassoi di cibo caldo e i dolci, le bevande sono tutto un programma: si vedono due bottiglie di vino già aperte, un rosso e un bianco; qualche cassetta di una sola birra artigianale, un'insolita 'ipa' stile americano ma a km0; il caffè, spillato da uno dei due grandi termos da picnic; e, dall'altro contenitore termico, una tisana denominata 'esprit de dieu', con timo, zenzero, miele e qualcos'altro, che viene spillata per un euro e cinquanta al bicchiere e si rivela il best-seller di prima dello spettacolo. 

 Del resto fa freddino nell'attesa, e sono venuti a sedersi al bar per scaldarsi anche alcuni 'odinisti' del cast tecnico, passa anche qualche attore che ha appena finito l'ultima prova e intanto comincia il via vai dalla biglietteria, dove le due addette consegnano i ticket ai prenotati e raccolgono una lista d'attesa che parte già con cinque nomi. Quasi subito una signora si pianta lì e si fa avanti ogni volta che qualcuno annuncia di voler lasciare a disposizione un biglietto prenotato, fino a che i pur sempre solari 'soleil-isti' si spazientiscono, e le garantiscono un ingresso purché li lasci lavorare in pace. Tra il pubblico che verso le 20 comincia ad accalcarsi per entrare, si comprende che tanti sanno di partecipare a un evento storico, eppure si chiacchiera distesamente, dell'Odin e degli altri grandi vecchi del teatro artistico d'avanguardia, padrona di casa in primis. Tra gli idiomi più in uso si sente l'italiano, forse anche più del francese. Un maturo borghese da Paris Marais, forse il doppiatore della Pantera Rosa, racconta alle sue amiche di aver visto finalmente dal vivo il Mahabharata, ovviamente non la versione capolavoro di Peter Brook, bensì il 'Notre Petit Mahabharata' allestito proprio dal du Soleil, straordinario, emozionante, meraviglioso; c'è una signora 'terzista', nel senso dell'età, che è un po' in ansia perché non capisce una parola di francese, arriva da Napoli e avrebbe voluto già vedere Thebes di Barba a Lecce, ma per fortuna che c'è lì accanto la figlia che lavora e vive a Parigi; una ragazza di Saluzzo, che è rimasta impigliata all'università di Nancy dopo un Erasmus durante il Covid e alla fine s'è fermata qui con il suo velò - ma stasera è venuta coi mezzi perché piovigginava -, è già in attesa da due ore, perché l'altra volta al du Soleil, per lo spettacolo 'L'Ile d'Or' della Mnouckhine, ha fatto tardi e s'è dovuta accontentare di un posto scomodissimo… 

Nella foto sopra il titolo, una scena di 'Thebes'; sotto il biglietto 'à tarifs réduits'

 Bando alle ciance. Ecco che si fa largo, salutando affettuosamente i vari amici e conoscenti, Eugenio 'Odino' in gran forma, con la chioma bianca al vento e pure i piedi all'aria, nei soliti sandali tipo Birkenstock che fanno da corollario a una divisa sempre decisamente francescana. Arriva alle tende nere che fanno da ingresso e comincia a far accomodare il pubblico, accompagna gli invitati nei posti riservati sul primo gradino, fa sedere per terra i più giovani, convince i riottosi a serrare i ranghi. Anche alla fine sarà Barba il primo a uscire: si fermerà davanti al banchetto con i libri e dvd dell'Odin in vendita, saluterà volentieri anche quelli che non conosceva di persona, si lascerà stringere la mano, si negherà solo a chi gli chiede l'autografo, ma non ai vari 'Grazie Maestro, grazie' pronunciati con enfasi e commozione, anche dal sottoscritto. E ripeterà in varie lingue che 'no, non è tutto finito, ma è un nuovo inizio, con gli archivi viventi a Lecce, la Fondazione Barba-Varley per il Terzo Teatro, l'attività di formazione… E forse anche l'Odin farà ancora qualche spettacolo, certo non al Nordisk di Holstebro, ma fino al 1° dicembre non posso dire niente di ufficiale…' 

 Del resto, c'era da sospettarlo: sul programma, fin quasi troppo didascalicamente per la consueta impervia ascesi stile Odin - Thebes è tutta recitata in greco antico, salvo giusto tre frasi che vengono pronunciate nella lingua del luogo della rappresentazione -, si può leggere la successione delle scene con i relativi titoli, e per il finale, numero 12, annuncia: 'Sette volte sette Tebe sarà distrutta e sette volte sette più una Tebe risorgerà', la qual profezia viene pure gridata in modo intellegibile. E' un'allegoria del teatro l'intero spettacolo e a rendere questa nuova storia di Edipo ancor più vicina a una sorta di cerimonia degli addii di Barba e dei suoi compagni di sempre, ci sono alcune evidenze: in fondo l'unico lenzuolo funebre senza macchie di sangue, tra i tanti che vengono sventolati, porta stampata in grandezza quasi naturale l'immagine di Torgeir Wethal, l’attore dell’Odin, una delle colonne del gruppo, morto nel 2010; ma questo, in realtà, lo possono sapere giusto gli intimi, e infatti lo ha scritto nel suo blog Anna Bandettini, che figura tra i membri anche della nuova Fondazione di Barba e Julia Varley.

 E lo spettacolo, allora? Tutto qui? Alla fine persino Eugenio Barba entra per un attimo in scena, porta un lumino cimiteriale all'ultimo personaggio che dovrà uscire nel buio, il vecchio saggio Tiresia, e sorridendo bacia sulla fronte velata di giallo una ieratica Julia Varley. Viene in mente a chi l’ha riletta di recente una frase emblematica sulla poetica dell'Odin Teatret che Barba stesso pronunciò in una delle rare solenni occasioni pubbliche di riconoscimento, il premio Sonning a Copenaghen, anno 2000; era un'affermazione molto pertinente anche per quest'ultimo spettacolo, e cioè che il miglior teatro lavora su qualcosa di arcaico e pre-espressivo, per insinuare nella testa dello spettatore immagini e sentimenti che resteranno a macerare a lungo, sedimentando nel suo intimo, e saranno in qualche modo addirittura trasmessi come patrimonio umano. E il trucco per fare questo Teatro, che merita appunto la maiuscola anche se opera con le minuscole, è così semplice che si riassume in un solo gesto: 'Devi aprire gli occhi dello spettatore con la stessa delicatezza di come quando chiudi gli occhi ad una persona appena morta'.     

 Così, il 19 novembre sera a Parigi, in quella Petite Salle arredata tutta in nero come una camera ardente, mi sono lasciato 'chiudere gli occhi' anch’io, incantato, prendendo parte a questo straordinario funerale, lasciando agire questa 'delicatezza' di sentimenti, aldilà del linguaggio della ragione. Eppure seguivo attentamente l'azione, per esempio ho compreso bene i nomi che gli attori hanno pronunciato e spesso urlato; ho distinto nettamente, più volte, Antigone, Creon, Edipo, qualche volta pure Giocasta e Tiresia, almeno una anche Sphìgx, prima di udire, ripetuta chiaramente, anche la parola 'antropos', ossia la soluzione edipica all'indovinello della Sfinge su qual è l'essere unico dell'orbe terraqueo che pur avendo una sola voce e una sola natura, nella stessa vita ha due piedi, tre piedi, quattro piedi, e mi pare d'aver sentito sgranare pure 'dipous, tripous, tetrapous'… 

 A proposito del senso di questo rito restano nella memoria diverse ricorrenze di 'tanatos' ma quasi altrettante di 'agape', il termine guarda caso più ‘alto’ dei tre (eros, filia e appunto agape) che indicano l'amore, e definisce anche l'amore cristiano nei vangeli. E di tutte le riproduzioni dei capolavori della 'febbre gialla' - quando, dopo il 1850, tra i pittori esplode l'uso del nuovo giallo chimico - solo due vengono elevate sui supporti di legno, invece di venir stese per terra come le altre durante questa ultima ‘Thebes’: dominano per qualche minuto, da una parte e dall'altra del corridoio di scena, una Colomba da bandiera della pace di Pablo Picasso e il Cristo giallo con la crocifissione di Paul Gaugin (letteralmente 'di' Gaugin, dato che nell'autoritratto che si può vedere al Museo d'Orsay, l'artista s'è ripreso in primo piano con dietro quel suo Cristo giallo, per evidenziare la somiglianza). 

 Ma bisognerà pur riparlare di tutta questa questione del giallo febbrile e della sequenza di grandi e riconoscibili opere d'arte pittorica in quest'ultima magica opera d'arte teatrale di Eugenio Barba, esattamente come merita di essere ripensata a parte la storia di questa Thebes, le dodici scene e i costumi e le luci, la sorprendente performance, anche fisica, di questi interpreti pur ormai così in età, che nei gesti più suggestivi delle mani non si riescono a non notare anche certi piccoli dispettosi segni che le cartilagini articolari lasciano sulla forma delle dita. Agli spettatori abbandonati per qualche secondo al buio, resta solo l’arcaico di una testa di toro, posata sopra al tavolaccio dove sono stati accatastati i pochi elementi di legno e di tessuto usati per lo spettacolo. 

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