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‘Depois do silêncio’, il teatro politico di Christiane Jatahy. Ma che cosa c'è dopo il silenzio?

 Alla fine di ‘Depois do silêncio’ (Après le silence), il nuovo spettacolo di Christiane Jatahy, che ha debuttato dal 23 novembre al 16 dicembre, a Parigi, si sente un po’ a disagio persino qualche suo spettatore seriale, orgoglioso citoyen o bo-bo (bourgeois e bohémien) che sia, e giusto due suoi amici s’attardano a chiacchierare con la regista-autrice che ha seguito la rappresentazione dietro al banco luci. Provando un attimo a fare ordine nelle sensazioni, verrebbe da dire che questo terzo e ultimo atto della ‘trilogia dell’orrore’ sul Brasile, allestita dalla Jatahy negli ultimi due anni, fa sentire lo spettatore davvero fuori luogo (pas à sa place), il che è persino paradossale al Centquatre Théâtre, in una sala dove peraltro ci si siede liberamente (‘placement libre’), tra le fermate della metro di Stalingrad e Riquet, ovvero nel fortino del crack della prima periferia di Parigi.

 In parole povere - mica poi tanto, sono dell’autrice stessa - dopo aver preso di petto il meccanismo sociale che alimenta il neofascismo alla Bolsonaro e sviscerato il ruolo del patriarcato (la mascolinità tossica come origine anche della violenza contro la natura) in ‘Depois do silêncio’ Jatahay affronta il tema del perdurare di forme di schiavitù rurale nel cuore del Brasile e delle lotte contadine. Le attrici e il musicista che le accompagna sono i discendenti degli africani deportati centinaia di anni fa, come i protagonisti del film con cui dialogano, e sono profondamente brasiliani anche i due riferimenti principali cui si richiama la storia, il romanzo ‘Torto Arado’ (in italiano ‘Aratro ritorto’, Tuga ed.) di Itamar Vieira Junior, sull’omicidio di un sindacalista che combatte l’atroce sfruttamento dei coltivatori di canna da zucchero, e il documentario ‘Cabra marcado para morrer’ (‘Un uomo segnato dalla morte’) di Eduardo Coutinho, travagliassimo film sul leader contadino degli anni Sessanta João Pedro Teixeira brutalmente assassinato. La narrazione s’interseca dal vivo con un filmato proiettato su un muro di tre schermi, girato nella regione della Chapada Diamantina, a Bahia, cioè in un’area così intimamente legata alla storia della schiavitù e dello sfruttamento delle terre. Prendono la parola gli eredi diretti dei quattro milioni di africani portati come schiavi in Brasile, sfruttati senza pietà da ormai 400 anni. Il gioco teatrale è condotto con sicurezza da due giovani attrici della periferia di Rio, Lian Gaia, indigena, che per pura combinazione è pronipote dello stesso João Pedro Teixeira di cui parla il film e lo spettacolo, e Juliana França, un’afro-brasiliana che nella capitale del Brasile anima il collettivo teatrale militante Código; interagiscono magnificamente con Gal Pereira, primadonna della comunità della Chapada Diamantina, che in video regge la parte dello spirito Encantada. A conferire il decisivo tocco animista, misterioso, profondo, da religione ancestrale, è anche la straordinaria sonorizzazione che viene curata dal vivo dal percussionista Aduni Guedes. Come dice Jatahy, questo spettacolo ‘non adotta il punto di vista del potere o dell'élite, ma quello di coloro che sono più violentemente colpiti dall'organizzazione della struttura sociale’ e fa sentire lo spettatore occidentale davvero fuori luogo, non solo per il senso di colpa sociale, ma anche proprio per l’estraneità culturale.

 Ecco perché viene da ricominciare a ragionare sulla scelta del teatro più alternativo, il 104 Paris, dei due cui Jatahy è associata nella capitale francese, che è la città dove è stata in pratica adottata dal 2011, teatralmente parlando. Questo ‘luogo infinito di arte, di cultura e di innovazione’, il Centquatre appunto, non è solo un teatro ma una sorta di centro sociale, che funziona da cantiere di talenti artistici, incubatore di nuove imprese, casa per bambini, sala da ballo, mercatino ecc.. Lo spettatore teatrale del fine settimana, quando arriva finalmente ad aprire la porta del 104, si trova di fronte allo splendore vivacissimo di una vera e propria oasi di vita sana e bella, in una periferia popolare che invece è diventata da qualche anno l’area che nemmeno le ruspe della polizia sono riuscite a liberare dalla morsa del consumo di crack e di eroina. Un’area dove si fanno notare pure le sagome scure delle famiglie che qui frequentano la moschea Adda'wa, il più importante luogo di culto islamico nella periferia nord-est, e passano veloci con lo sguardo per terra o coperto dal velo integrale.

 Jatahy è artista associata, in quel di Parigi, anche al famoso Odéon-Théâtre de l’Europe, uno dei più importanti centri teatrali del mondo, nel cuore della Rive Gauche, ma ‘Dopo il silenzio’ non poteva che esordire al Centquatre, in quel contesto che di per sé mostra il teatro a ‘placement libre’ per ciò che di profondo il teatro deve davvero rappresentare nella società. E’ in luoghi come il 104 Paris che non appare assolutamente ‘pas à sa place’ il teatro politico nella cui tradizione così orgogliosamente si vuole iscrivere questa trilogia brasiliana di Jahaty. Sarà tutta un’altra rappresentazione, sicuramente, quella che prende la strada per Zurigo, a febbraio, e passa al prestigioso Schauspielhaus (dove, fino al ’22, oltre a Jatahy, erano nella lista dei ‘related artists’ Milo Rau e Yana Ross, nonché è diventato ospite l’ucraino Stas Zhyrkov…) per poi fare una tournée europea, che toccherà anche Milano (il Piccolo Teatro di Milano si è aggiunto, da quest’anno, al pool di istituzione teatrali cui si appoggia l’attività della nostra 'Chris').

 Il primo indizio di luogo, dunque, dice già così tanto dell’operazione ‘Depois do silêncio’. Aldilà del disagio di sentirsi ‘fuori luogo’ come spettatori di questo dramma, e del dramma reale che porta alla luce, della cultura davvero altra con cui ci si deve confrontare, c’è una considerazione più specifica che sorge spontanea. A un certo punto della sua vita bella, e piena, è come se la nostra ‘Chris’ si fosse trovata di fronte a uno snodo decisivo. Continuando meravigliosamente a giocare tra teatro, cinema e realtà, con ‘Le Present qui Déborde’ si è messa in gioco personalmente e alla fine, toccando il cuore delle sue radici.  E, nel pieno di una raggiunta maturità umana e professionale, ha dovuto fare i conti con una storia familiare che è suonata come una vocazione, ora più che mai, in un mondo che sembra incupirsi e tornare indietro di cent’anni: il nonno paterno dissidente politico amatissimo dagli indigeni dell’Amazzonia, la bisnonna materna afro-brasiliana…Così è arrivata a questa trilogia dell’orrore, da teatrante-militante, anti-Bolsonaro e anticapitalista, umanista e utopista, dichiaratamente, in una sequenza che si è fatta man mano più nitida, da una non proprio felice riscrittura di Lars Von Trier a questa vera e propria ‘cessione di parola’ agli afro-brasiliani, dove dichiara una sorta di rinuncia anche al suo stesso linguaggio così sperimentato. La crudezza efficace di questo disagevole ‘Depois do silêncio’, avrebbe fatto meritare alla Jatahy l’applauso e i complimenti di tutta la meglio gioventù del teatro politico della repubblica di Weimar, Erwin Piscator e Bertolt Brecht con George Grosz in prima fila, per non dire dei tanti loro eredi anni Settanta. 

 Adesso, un ultimo istante d’attenzione: che cosa c’è ‘Dopo il silenzio’? Aldilà dell’intenzione politica del titolo, di dar voce finalmente a chi non ha avuto voce: dopo il silenzio, dopo, per Jatahy, che cosa ci può essere? Dopo questo silenzio, che è quasi uguale nelle nostre lingue, in tutte quelle che nel suo teatro usa così abilmente; ed è la stessa parola dal latino, ché eredita onomatopeicamente quel ‘ssssssss’ che fa tacere e pure ci lega, secondo un’interpretazione etimologica della radice in sanscrito, proprio come nell’attimo che precede il teatro? Forse Jatahy ci sta dicendo che è già pronta per un’altra avventura, la terza vita: dopo una carriera da film-maker e da artista, e dopo aver mostrato uno straordinario talento nel rinnovare il linguaggio teatrale, sembra proprio arrivata alla maturità perfetta per un ruolo di formatore, direttore, maieuta, e c’è da augurarsi che possa esprimerlo al meglio nel suo amato Brasile, ora che il cambiamento politico dopo il ritorno di Lula sembra avvenuto. ‘Depois do silêncio’ potrebbe segnare per Jatahy il passaggio a qualcosa che attiene, più che alla creatività, alla generatività, per dirla con una parolaccia molto in uso attualmente. In fondo, il suo più vicino ‘cugino’ di linguaggio, Milo Rau, ha già fatto il passo oltre la scena, prendendo la direzione del NTGent…Va beh, ora lo spazio stringe: ma non è che l’inizio, ‘continuons le débat’.        

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