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20.11.2024
E' il talento che fa lo spettacolo, non l'istituzione: ecco perché bisogna ripartire dalle compagnie e dal teatro di ricerca
Chi frequenta con passione i teatri sa bene che bellezza e creatività possono sopravvivere solo nelle quattro stanze dove l’artista non si deve misurare altro che con se stesso, più che nei carrozzoni pubblici.
Se si vanno a a cercare i nomi, per esempio, che hanno segnato la svolta cosiddetta post-drammatica nel teatro contemporaneo europeo, ancora quasi trent’anni dopo il successo, bisogna scovarli in una piccola fabbrica di tabacco dismessa a Molenbeek, con l’insegna Need Company (l'ensemble di Jan Lawers), o nel vecchio laboratorio per fabbri e tornitori di Cesena, trasformato in teatro per la Raffaello Sanzio Society fondata da Romeo Castellucci con quattro anime di famiglie.
Anche guardando alle nuove generazioni si possono mettere in fila svariati esempi di belle compagnie di provincia, oggi facilmente a guida collettiva, che si sforzano di fare un teatro contemporaneo artistico e pungente: anche a Bologna o a Belluno, per dire, non solo a Barcellona o in Francia.
Per citare solo due esempi, a tirar giù i teatri per gli applausi, alla Biennale di Lione piuttosto che all'ultimo Dance Reflections di New York, sono stati i ragazzi del balletto di Marsiglia guidati da tre giovani autori e coreografi del collettivo La Horde. E un altro collettivo, belga, gli FCBergman ha presentato lo spettacolo più bello all'ultima Biennale di Venezia.
Purtroppo, invece, in Italia e forse un po' dovunque subentrino politica e lobbies varie e scorrano tanti soldi, come nei teatri pubblici, un personaggio di talento, soprattutto se non è su con l'età, viene considerato, quando va bene, un caratteraccio da tenere alla larga.
Nelle note istituzioni che avranno pure un passato glorioso ma è perlomeno remoto, bisogna invece accettare i compromessi del caso per ripararsi al calduccio.
Oggi non può esistere un grande regista inserito nel potere teatrale che pure possa studiare i suoi spettacoli a Casa del Diavolo, Gubbio, come faceva Luca Ronconi: anche il migliore autore che uscisse dal suo podere per accasarsi in questo e quel teatro nazionale, finirebbe consumato per tirar su gli incassi, se va bene, con un classico da rivisitare e una stellina da far brillare.
Viceversa, se un creatore vuole difendere l’integrità artistica di quel che ha in mente di fare, sta rintanato nel suo piccolo mondo ma deve poi sudare sette camicie per raccattare i soldi qua e là ogni volta che monta un nuovo spettacolo.
Ecco, il nodo da sciogliere non è quello di redistribuire i finanziamenti tra le istituzioni, ridurle o introdurne di nuove con la scusa degli scioperi e della malagestione, ma è proprio questo d’interrompere una politica miope che ha penalizzato il teatro di ricerca e le compagnie, per liberare dal giogo della burocrazia e della penuria le vere risorse artistiche, che sono le persone di talento, e far ripartire un settore che così potrebbe riscoprire la sua stessa funzione pubblica.
P.S.: A proposito, ma il pubblico non ha mai voce in capitolo? Nei consigli d'amministrazione dei teatri, dove siedono i famigli di questo o quel potente, e nelle commissioni ministeriali con i soliti noti, non si dovrebbe trovare uno strapuntino anche per i rappresentanti degli spettatori, magari estraendo a sorte tra coloro che si candidano?