" /> Lassù tra le montagne si balla all'insegna della natura: Bolzano Danza fa 40 con un programma festoso e superlativo

E ora, dopo questa Trilogia della parola, come la mettiamo con quel gran figlio di Marano e' Napule di Lino Musella?

Lino Musella (foto di Mario Spada)

 E’ stato il più bel regalo di fine stagione che il teatro Elfo Puccini potesse fare agli appassionati milanesi, ‘La trilogia della parola. Tre composizioni di Lino Musella. Pasolini/Shakespeare/De Filippo’. Nell’arco di nemmeno una settimana sono andati in scena, uno dietro l’altro: ‘Come un animale senza amore’ monologo su Pier Paolo Pasolini con musiche dal vivo di Luca Canciello e drammaturgia di Igor Esposito; ‘L’ammore non’è ammore’ ovvero ’30 sonetti di Shakespeare traditi e tradotti in napoletano da Dario Jacobelli’ con Marco Vidino ai cordofoni e percussioni; e ‘Tavola tavola chiodo chiodo’, il progetto eduardiano firmato con Tommaso De Filippo e accompagnato in scena da Marco Vidino alla chitarra.

 Ci sarebbero una quantità industriale di notazioni da riportare, dopo questa esperienza nella sala Fassbinder: eppure, nemmeno volendo impegnarsi seriamente, si riuscirebbe ad imbastire un canonico ‘passaparola’ con le reazioni degli spettatori che hanno quasi sempre riempito, quasi del tutto, la platea cult a piano terra dell’Elfo.

Tra gli affamati d’emozioni artistiche non mancavano ovviamente, almeno alle prime rappresentazioni di ogni parte del trittico, gli addetti ai lavori, a partire dal direttore-fondatore del teatro milanese Elio De Capitani, accompagnato dalla storica complice Cristina Crippa, passando per l’aut-attore milanese Paolo Mazzarelli, che di Musella è compagno di scena da più di quindici anni.

 Dunque, in media il moto di reazione che si poteva ascoltare, almeno da un sondaggio stocastico, era proprio quello che chiunque si sia occupato con passione di spettacolo, a qualunque livello, si auspica di poter provare: ‘che meraviglia!’

E si potrebbe chiudere il discorso così, sic et simpliciter, con grande gioia anche dei produttori, da La fabbrica dell’attore del Teatro Vascello all’associazione culturale Cadmo, realtà romane davvero degne di nota, e al Teatro di Napoli per De Filippo. 

 Non è che l’hanno chiusa così, con un’esclamazione soltanto, alcuni recensori tra i più dotti e affidabili, anzi. Musella è giustamente considerato non solo un attore eccellente, ma ‘un esempio di grande forza, artistica e culturale dei nostri palcoscenici’, scrive Gianfranco Capitta su ‘il manifesto’. Per non dire del riconoscimento alquanto notevole, dati i progetti artistici e intellettuali così impegnativi come quelli su Pasolini e su Eduardo, che è arrivato da una fonte come Enrico Fiore, generalmente impietosa nei confronti di chi scomoda il suo amico De Filippo.  

 Qualcosa oltre ‘che meraviglia!’, dunque, bisognerà pur dirlo. Cominciando da Napoli. Musella è uno che non viene fuori da una condizione propriamente agiata, era un ragazzo di periferia, Marano 'e Napule, e come quel mondo di strada gli stia ancora bene addosso, lo hanno visto in tanti anche soltanto nelle puntate della serie televisiva ‘Gomorra’. 

 La sua storia di uomo e di attore l’ha raccontata molto sinceramente lo stesso Musella in un’intervista: ‘Ho frequentato come allievo l’Accademia d’Arte Drammatica di Guglielmo Guidi e il direttore della scuola era anche il direttore artistico che ha riaperto il Teatro Politeama. E grazie a lui ho avuto la possibilità di formarmi all’antica italiana. Mi ha affidato a Emilio Peluso, una figura estremamente eduardiana, che aveva una somiglianza con Eduardo pazzesca. Sono stato fortunato, ho potuto avvicinarmi al teatro stando a teatro, e vivendo tutta una serie di esperienze che sono state molto intense, dal ’96 al ’98-’99. Ero al Politeama tutti i giorni, d’estate facevamo le rassegne, sono stato dentro al mestiere dai sedici o diciassette anni. Quella per me è la mia formazione.

Poi sono venuto a Roma e ho conosciuto un altro contesto, quello delle cantine, sono entrato in contatto con un altro modo di stare in scena, vedendolo, non facendolo, gli spazi erano piccoli. Ero abituato a spazi molto grandi e la drammaturgia contemporanea non sapevo cosa fosse, che esistessero testi scritti l’altro ieri e messi in scena oggi’.

 ‘La trilogia della parola’ è un vero proprio gioiellino napoletano, il che era meno ovvio per esempio nel caso di Pier Paolo Pasolini: ed è questa napoletanità insieme la forza e anche la debolezza del taglio che Esposito e Musella hanno voluto dare al monologo su questa figura ancora oggi di primaria importanza della cultura e degli intellettuali italiani.

Mostrando grande rispetto per il mito di PPP, Musella comincia per così dire ‘in sottrazione’ questo intrigante ‘Come un animale senza nome’: l’attore si mette di traverso, in penombra, non guarda il pubblico ma il musicista, ed evita accuratamente di recitare troppo, avendo scelto di iniziare con le parti più intime e personali della storia di Pasolini.

 Ecco che la fuoriserie del palcoscenico, a sorpresa, sembra fare in partenza il rumore di un’automobile ibrida di nuova generazione: ma poi, forse, come se non avesse il cambio automatico, a Musella scappa un po’ la frizione, complice anche qualche eco musicale di troppo, quando arriva ai versi, stupendi e così significativi, in cui il poeta mette a fuoco la sua venerazione per la madre proprio come scaturigine del suo rapporto atipico con l’amore. 

 Far risuonare un pezzo di ‘Mamma’ di Beniamino Gigli, a questo punto, può essere pure una grande trovata, e così la pensano in tanti. Ma si potrebbe anche obiettare che questo piccolo arzigogolo spettacolare rischia d’insinuare il tarlo di un Pasolini schiacciato proprio sull’immagine che lui stesso voleva rifuggire, ovvero un nostalgico di quell’Italietta vecchio stampo, di cui questa canzone è quasi un inno.

 E alla fine del suo Pasolini, Musella è talmente un eccellente attore che poi non resiste a essere se stesso, con la chiusa enfatica e pressoché obbligata della più celebre invettiva sul ‘Corriere della Sera’, pubblicata con il titolo ‘Che cos’è questo golpe? Io so’: per stare alla metafora automobilistica, SuperLino passa davanti alle ‘belle bandiere’ di fine corsa rombando come una Ferrari degli anni migliori. 

 In piccolo, capita qualcosa del genere anche nel magnifico ‘Tavola tavola chiodo chiodo’, una composizione che qualunque autentico appassionato potrebbe rivedere dieci volte di fila ugualmente incantato. 

 Musella resta a lungo come rispettosamente un passo indietro, riuscendo a costruire un percorso intrigante e vivo senza mai tradire oltretutto lo spirito ‘eduardiano’ originale. Poi, a un certo punto, vuoi anche stavolta per il dovere di rendere ancora davvero bruciante un testo polemico - forse il più celebre di De Filippo, la lettera al ministro sullo stato del teatro pubblico -, vuoi perché il crescendo finale è d'obbligo, Musella mette il turbo nel motore. 

 E infine regala ai fans un siparietto dietro le sbarre, in cui alterna a De Filippo anche la parte di due-tre ragazzi del Filangieri che invitano Eduardo ad andare a trovarli nel carcere minorile, recitando in modo così indimenticabile che volgarmente si direbbe di quelli che ‘a me mi fa un baffo persino Jack Nicholson in ’Shining’…

 Prima di arrivare alle mani con legioni di ‘muselliani’, bisogna specificare che nessuno mette in dubbio la caratura del suo talento e pure dell'efficacia delle sue costruzioni drammaturgiche. Musella sa perfettamente come si fa: l’arte del palcoscenico è anche mestiere, e qui ce n’è da vendere.

E’ però oltremodo d’interesse generale fare una piccola riflessione ulteriore su quello che si potrebbe definire il caso Musella. 

 Dunque, andando per sommi capi, il nostro, già diventato un fior fiore d’attore, arriva alla consacrazione con un paradossale premio Ubu per la prova nello spettacolo autobiografico di Jan Fabre: non è come il Duse all’imitatrice Virginia Raffaele, ma poco ci manca. Sicuramente SuperLino ha fatto decine di spettacoli migliori e decine d’interpretazioni più indovinate creativamente, di questa in cui fa così il bene il verso a un altro artista.

 Oltretutto ‘Giornale notturno-The night writer’ si rivelerà poi un punto di passaggio non proprio elegante e indovinato nella carriera del guru belga del post-drammatico: arriva forse non a caso nel pieno del successo e dell’egocentrismo connesso, che porteranno poi Fabre alla clamorosa caduta dal piedistallo, dopo le accuse di molestie sessuali e maltrattamenti all’interno della sua compagnia Troubleyn.  

 Dopo Fabre e prima di quel che ne segue nei tribunali a Bruxelles, Musella ha talmente il vento in poppa che, con la compagnia fondata insieme con Mazzarelli, riesce ad aggiudicarsi i diritti in Italia per l’adattamento teatrale di ‘Interviste con uomini schifosi’ di David Foster Wallace.

Come noto, si sta parlando di uno scrittore che definire di culto o generazionale è riduttivo, ma che sicuramente è considerato una figura chiave della prima epoca post-digitale, e non solo dal giorno della sua tragica scomparsa nel 2008, o dopo la vera e propria consacrazione come autore del grande romanzo americano firmata in primis da Don De Lillo (1).

 Applausi applausi applausi, anche stavolta Musella porta a casa l’entusiasmo del pubblico. Ma qualcosa sembra scricchiolare. I più avvertiti notano l’alquanto debole resa in italiano: trattandosi di uno scrittore come DFW, che mescola linguaggio della cultura alta e ‘slang’ o parlato di strada, è davvero arduo affrontarlo in un’altra lingua. La traduzione sulla locandina reca come prima firma quella di Aldo Miguel Grompone, manager teatrale di notevole livello, tra le altre cose anche braccio operativo di Jan Fabre. 

 Alla regia, poi, ci sarebbe l’argentino Daniel Veronese, figura di prim’ordine, che però sembra aver scelto in questo caso di apportare un tocco di quasi invisibilità. Si sa, del resto, che dirigere operazioni di un certo peso commerciale con 'attoroni' in scena, non è facile e persino i migliori faticano ad aggiungere qualcosa di personale.  

 Quel che è peggio, a guardare le ‘Interviste con…’ di Musella e Mazzarelli ci si diverte parecchio, troppo: si assiste a un’esibizione davvero eclettica dell’attore Musella, ma così eclettica che contribuisce ad annullare l’inquietudine stessa che dovrebbe suscitare, stando allo spirito originale del singolare testo di DFW, di cui appunto si fatica a trovare traccia.

 Il dispetto del caso vuole poi che la Biennale Teatro di Venezia offra a fine giugno del 2022 la possibilità di un confronto diretto con la versione davvero ‘schifosa’ e inquietante che dello stesso testo di DFW ha dato la regista di origine lettone Yana Ross, con la compagnia dello Schauspielhaus di Zurigo.

Due sole piccole note a margine: alla Ross, che peraltro è una regista tanto brava quanto provocatoria e al passo con i linguaggi post-teatrali, avrà giovato sicuramente l’aver studiato e vissuto negli Stati Uniti proprio nel periodo in cui la stella di DFW ha cominciato a brillare (caso unico, Yana ha ottenuto anche i diritti per la versione teatrale di ‘Considera l’aragosta’). Ancora, la Ross ha potuto far leva anche sulla perfetta formazione degli attori di uno dei teatri più importanti di lingua tedesca e della scuola di recitazione per così dire ‘fredda’.

 Ecco, tornando al presente, Musella è uno dei migliori talenti in circolazione e bisogna riconoscergli anche la capacità di risorgere dal facile successo attraverso scelte artistiche di così ammirevole impegno, soprattutto in un contesto come Napoli e il Sud (di recente si è misurato anche in un interessante 'Pinter party').

Si potrebbe facilmente dimenticare il paradossale Ubu con l’imitazione di Fabre, quel Foster Wallace tradito e altro ancora, anche solo grazie a queste belle repliche della trilogia della parola, se non ci fossero quei piccolissimi nei, anche nella riproposizione originale di figure come Pasolini o Eduardo. 

 Volendo, il caso Musella spiega perfettamente lo stato dell’arte nel povero teatro italiano. Ha un potenziale enorme, SuperLino, come lo hanno pochi campioni della sua generazione, per esempio, anche solo per analogia di singolari convergenze pasoliniane, Elio Germano. Ma qui non si sa nemmeno quale professore di teatro potrebbe mettere a talenti del genere il 10 in pagella, o magari garbatamente far qualche segno rosso di spunta.

 Forse, prima di finire fagocitati da macchine produttive ancor più impegnative, come è capitato ad alcuni illustri colleghi della generazione precedente, dovrebbero passare per qualche esperienza internazionale. Adesso che lo fai così bene, disse Peter Brook a Marcello Mastroianni l’unica volta che lavorarono insieme a teatro in Francia, prova a ripetere tutto lo spettacolo in un’altra lingua, non in francese come hai imparato, ma per esempio in inglese, o in un altro idioma di cui hai una conoscenza appena superficiale…

 Eh sì, in Italia oggi mancano i maestri, o non sono riconosciuti tali quei due-tre grandi vecchi che potrebbero fare da punto di riferimento. E c’è una carenza assoluta di figure apicali del teatro di regia, anzi sono malvisti quei due-tre spiriti liberi in grado di reggere il passo con lo standard internazionale più alto. Per dirla con una battuta sul sistema imperante, morto Ronconi non se n’è fatto un altro, ma troppi altri e mediocri.

NOTA (1): ‘Possiamo immaginare i suoi testi narrativi e i suoi saggi come stralci di rotoli da un lontano futuro', scrisse De Lillo di DFW. 'L’opera la conosciamo già come notizia di prima mano: dallo scrittore al lettore, intimamente, ossessivamente. Lui non ha incanalato le sue doti entro schemi più angusti. Voleva reggere l’urto della vasta, farneticante, ingovernabile onda della cultura contemporanea’. Citato sulla rivista letteraria ‘Acoma’ da Luca Briasco ‘Dall’ironia al romanzo. Un’ipotesi su Foster Wallace’.

Ultimi Articoli