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E se i Macbeth fossimo tutti noi? Forse andrebbe davvero sterminata la razza umana?

Nella foto di Luca Del Pia, da sinistra Giovanni Moschella, Enzo Vetrano, Raffaella d’Avelia e Stefano Randisi in scena ne ‘i Macbeth’.

 Cominciando dalla fine, verrebbe la tentazione di tornare a vedere in quel di Imola, tra poche settimane, ‘i Macbeth’, che fino al 26 marzo è al teatro Sant’Afra di Brescia, dove ha debuttato (è una coproduzione, con Arca Azzurra, del Centro Teatrale Bresciano, in occasione della notevole stagione ‘Questo cuore umano’ che accompagna l’anno di Bergamo-Brescia ‘capitale della cultura’). A Imola sono diventati ormai di casa gli autori-attori-registi di questo ‘i Macbeth’, Enzo Vetrano e Stefano Randisi, così siciliani d’origine, non solo per l’anagrafe ma anche per consolidate frequentazioni di carriera: agli spettacoli de ‘La Trilogia della Sicilia’ di Vetrano-Randisi, che li hanno fatti conoscere nella seconda metà degli anni Ottanta, è stato dedicato un volume da Cue Press, la piccola lodevole casa editrice specializzata che ha la sua base - indovinate un po’? - in quel di Imola, e il libro tra l’altro ha la prefazione dell’editore stesso Mattia Visani. E’ che fin dal primo impatto con la scena di quattro celle di cura e detenzione (poi diventeranno un unico muro di piastrelle, bianco, da mattatoio), lo spettatore d’origini bolognesi viene fatalmente riportato a un’immagine di ‘Imola città dei matti’, con quegli interni da manicomio che fu dell’Osservanza, il più celebre e il più grande ‘ricovero degli alienati’ nella cittadina con cui Bologna si apre alla Romagna.

 Ma conviene tornare al Sant’Afra, una bella sala oratoriale a est del centro storico e a pochi passi dalla statua di Arnaldo da Brescia. E avvertire, prima di tutto, che questa strana riscrittura non rinuncia ad alcuni passi chiave della classica tragedia shakespeariana, nonostante l’autore della traduzione-riduzione si sia spinto parecchio nella direzione di un’attualizzazione all’insegna di alcuni casi di cronaca nera, che riecheggiano inevitabilmente, anche se non sono citati con nomi e cognomi, da Olindo e Rosa al delitto Varani. Per andare dietro ai relais, peraltro, si fa notare il cognome dell’autore Francesco Niccolini (piuttosto noto ‘scrivano’ - come ama definirsi - anche per via della collaborazione con Marco Paolini ): riporta dritto al grande drammaturgo, e patriota d’inizio Ottocento, Giovanni Battista Niccolini e al suo capolavoro neo-ghibellino dedicato - a rieccoci! - alla figura di Arnaldo da Brescia, riformatore religioso del 12° secolo, predicatore di fede profonda e di rigorismo morale, perciò amato pure dai mangiapreti. E, in effetti, sotto a questo ‘i Macbeth’ si potrebbe ritrovare una vena di giansenismo puro, di quello che Catho e Wiki e pedie varie, classificano come ‘giansenismo dogmatico’, perché muove dall’idea che l’uomo sia destinato a fare il male in quanto corrotto dalla concupiscenza: che è un po’ il sapore che resta amaro in bocca dopo un’ora e un quarto passati davvero ‘into the darkness’, nonostante la domenica pomeriggio così solatia fuori dal Sant’Afra. 

 Sempre procedendo per coincidenze, mentre si spengono le luci in sala, da fuori si sente risuonare la campana dell’Ora Nona, ben prima di quella che segna ‘il magnifico soliloquio di Macbeth, considerato un’apoteosi dell’arte di Shakespeare’ (citazione da Harold Bloom, ’S.: the Invention of the Human’), un pezzo che nessuno oserebbe tagliare, e non lo ha fatto certo nemmeno il Niccolini di oggi, pur così intraprendente da aver rimesso le mani, e parecchio, persino nell’Odissea per Paolini. Poi, in questo ‘i Macbeth’ arriverà puntualmente anche il discorso più celebre, ‘La vita non è che un’ombra, un povero attore che si pavoneggia…’, e tutto quel che serve dello straordinario materiale originale per cogliere in pieno l’idea, fatta propria da tutte le interpretazioni classiche, che Shakespeare vuole farci sentire che ‘noi siamo tutti Macbeth’, spaventati e insieme affascinati dal cuore oscuro che batte dentro ogni uomo, tutti ‘assassini naturali’ almeno dentro l’immaginazione. 

 Altro che ‘Domani, e domani, e domani,’: in questa ‘tragedia di sangue’, tutti i pensieri, le parole e le opere sono sangue, e sangue, e sangue. Come per non esagerare, di sangue rosso in realtà Vetrano e Randisi ne fanno vedere ben poco, in questo spettacolo, soltanto due sbuffi sulla mano di Lady Macbeth a un certo punto. Eppure ’i Macbeth’ - lo indica appunto il titolo al plurale con l’articolo minuscolo - se possibile allarga lo spettro shakespeariano del nichilismo del male, lo fa diventare ancor più radicale e quotidiano. Lo si nota in particolare nell’ultima parte, ancor più oscura e dura da digerire, con tanto di contro-finale di chiamata al delitto, interpretata con durezza inquietante da Vetrano (che stavolta è un po’ più protagonista del socio Randisi, subito dopo il magnifico ‘Aspettando Godot’ con Terzopoulos, in cui era invece Randisi-Vladimiro a condurre più il gioco). Le ultime parole vengono addirittura dal discorso fatto dal pluriomicida americano Carl Panzram alla Corte che lo giudicava (così fa notare la recensione dell’anteprima de ‘i Macbeth’ al festival di Castrovillari, pubblicata su Controscena da un sempre attivissimo critico come Enrico Fiore). Macbeth-Olindo-Vetrano interrompe il motivo del gansta-rap con cui lo spettacolo si sta congedando dal pubblico, per lanciare la sua raccomandazione da brividi: ‘Mentre mi stavate processando, io stavo processando voi a mia volta. E vi ho giudicato colpevoli. Alcuni di voi li ho già giustiziati. Se dovessi continuare a vivere, ne giustizierò altri. Ritengo che l’intera razza umana debba essere sterminata. Farò del mio meglio per farlo in ogni occasione possibile. Io ho fatto il mio dovere. Ora fate il vostro’.

 A proposito di fare il proprio dovere, non solo i due intoccabili ‘sicilian-imolesi’ si esprimono come sempre superbamente, dopo ormai più di vent’anni dedicati allo studio e alla riproposizione di testi classici, ma sono davvero molto bravi tutti e quattro i protagonisti, a partire da Giovanni Moschella, cui tocca l’apertura come ‘portiere dell’inferno’ shakespeariano doc. Raffaella d’Avella è una lady Macbeth in grado di tenere il passo, anche nella scena chiave, con un protagonista la cui bravura ha fatto spendere l’aggettivo ‘mostruosa’ già per il precedente ‘Riccardo 3 - L’avversario’, firmato sempre da Niccolini, dove con Randisi, oltre a Vetrano, era in scena anche Moschella. Ed è proprio rivedendo vivissimo il folle e lento incedere di Lady&Macbeth nel corteo reale, mentre lanciano rose bianche con gli occhi spiritati e gli assassini rovesciano manichini-cadaveri in scena, ripensando appunto a questa sana pausa di recitazione, che il pensiero ritorna a Imola, per un’associazione che sa anche di reazione istintiva, e riporta alla memoria il vecchio professore di matematica e fisica al liceo Galvani di Bologna, che ancora nel Settantasette-sessantottesco si girava dalla lavagna e lanciava con impeto il cancellino verso i malcapitati distratti e si giustificava dicendo, con lo sguardo bello frizzante dietro gli occhialini: che avete da dire? pensate che sia matto? Eh sì, sono di Imola…, e di quella volta che invece raccontò compiaciuto un meraviglioso aneddoto sul povero ‘alienato’ in libera uscita serale dall’Ospedale dell’Osservanza proprio il giorno del 1940 in cui l’amministrazione di Imola aveva deciso di cambiare il nome al viale delle Acque Minerali per omaggiare il fratello del Duce, e il mattacchione camminando arrivò lì davanti alla nuova targa affissa, e si fermò e scosse un po’ la testa, guardò perplesso in giro, raccolse un sassolino di mattone rosso rimasto per terra, scovò una scala in un cortile vicino e senza dire una parola ai numerosi astanti, e ai frequentatori delle osterie vicine che stavano studiando la scena, tornò sotto al rettangolo di marmo fresco di apposizione e salì per correggere l’intitolazione ‘Via Arnaldo Mussolini’ aggiungendo l’inequivocabile: ‘Via anca so’ fradel’…e nessuno si ricorda se ci mise pure il punto esclamativo o no, e non si sa nemmeno bene se poi i fascisti più esaltati lo menarono o gli fecero solo trangugiare una bottiglia d’olio di ricino punitiva, perché da quelle parti tutto passa, così si diceva, ‘basta ch’al fèza ridar’. 

Nichilisti, estinzionisti e malvagi di tutto il mondo, ricordatevi: quest'umanità è da ammirare. 

Vetrano con d’Avelia nel momento clou del corteo reale

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