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Il Cane di Kafka che indaga tra quel povero Jacques del teatro yiddish e gli allievi di Grotowski e Kantor, fino al mito di Beckett

Francois Kahn in scena con 'Il Cane' di Kafka (foto di Luca Ruzza per Alkaest)
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CHE PEDIGREE, QUEL POVERO CANE

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 E’ calata anche la prima ‘scigherella’ di stagione, la nebbiolina in milanese, domenica 27 ottobre, dalle parti del capolinea Abbiategrasso-Chiesa Rossa della metropolitana verde, per accompagnare la ventina di appassionati che uscivano alla spicciolata dal Pacta Salone, dopo lo spettacolo ‘Il cane’, evento di chiusura di una tre giorni dedicata a Franz Kafka

 Non sembrava poi così straniante, quel leggero velo di umidità nell’inizio della prima notte dopo il cambio dell’ora, per la piccola pattuglia di appassionati accorsi a vedere come un allievo di Jerzy Grotowski, l'attore e formatore Francois Kahn, provava a portare in scena uno degli ultimi testi di Kafka, ‘Le indagini di un cane’. 

 Non a caso, appena terminato l’esemplare esercizio di perfetto ‘teatro povero’, in attesa che l’aut-attore tornasse in sala per un piccolo incontro del dopo, ha provato a intrufolarsi nel Salone il grande tenerissimo Alaskan Malamute di casa, che normalmente sta chiuso nelle stanze degli uffici lì accanto, con la sua padrona Annig Raimondi, direttore artistico del teatro.

 E no, con l’indagatore kafkiano, che è una sorta di doppia proiezione autobiografica, d’artista e di ebreo, non c’entravano niente i veri e propri cani, nemmeno un cagnone - peraltro chiamato Qibla come la direzione della Mecca - che ha la fortuna di albergare spesso in questa palazzina del Municipio 5, proprio sopra a uno scalone abbellito da un’emozionante galleria di manifesti storici del Centro di Ricerca Teatrale, che aveva qui trovato asilo.

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IL CIBO CHE VIENE DAL CIELO

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E’ un singolare territorio di confine, quest’area della piccola e periferica via Dini, non solo per la Città metropolitana di Milano, altresì detta ex-Provincia. Qui si mescolano culture che oggi si direbbero di ‘nicchia teatrale’, derivate proprio dal CRT: oltre a Pacta Arsenale dei teatri ci sono i veri e propri ‘reduci’ dell'altro guru polacco del teatro contemporaneo, Tadeusz Kantor, riuniti nella compagnia Alkaest (che co-produce questo ‘Il cane’ con TeatrodaCamera). 

E non sarà un caso se, prima dell’insegna del teatro, sulla lunga cancellata accanto, si legge a caratteri cubitali: Centro Comunitario ‘Giancarlo Puecher’. Si tratta di un complesso di servizi intitolato, nel 1955, alla memoria del primo partigiano medaglia d’oro al valore militare, Puecher appunto, giovane fervente patriota cattolico.

In prima fila nella nascente Resistenza tra la Brianza e Milano, l'indimenticato eroe 'bianco' Giancarlo fu catturato e fucilato dai fascisti alla fine del ’43 e lasciò come testamento una delle più toccanti tra le ‘Lettere dei condannati a morte della Resistenza’.

Venendo al Cane indagatore di Kafka, la questione letteraria del testo è presto detta: questo manoscritto si data al 1922, periodo finale della vita dello scrittore, ed è un lavoro lasciato incompiuto e in sospeso come ‘Il Castello’ stesso, che è stato l’ultimo romanzo imbastito.

Come tutti sanno, i manoscritti e le lettere lasciati all’amico Max Brod dovevano essere distrutti, cosa che capitò soltanto ai testi che restarono in possesso della fidanzata Dora. Di Brod, peraltro, questo racconto parla, in un passaggio decisamente crudo, come dell’unico cane ‘amico’ che è rimasto al solitario protagonista.

Brod decide poi di pubblicare tutti i testi che Kafka gli ha lasciato, vedi Milan Kundera ne ‘I testamenti traditi’ e un’intera letteratura critica a tema. 

 E’ un abbozzo di racconto sorprendente e di certo ancora grezzo, quello che Brod consegna alle stampe provvedendo ad aggiungere ‘Indagini di un cane’ come titolo, perché è evidente quanto Kafka parli in realtà di se stesso e della sua condizione di ebreo, nel periodo culminante della malattia che lo sta portando alla morte, la tubercolosi.

Sicuramente è un testo allegorico, dove non a caso (non riuscendo più a deglutire bene, Kafka ormai si nutriva molto poco e quasi solo di liquidi) sono incombenti il tema del digiuno, e dell'origine del cibo, che viene 'dal cielo' e non dalla terra.

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DALLA POLONIA A PONTEDERA

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 Nell’incontro che è seguito alla sua straordinaria interpretazione, tanto ridotta all’essenziale quanto incantevole (e pure così grotowskianamente straziante nel finale a lume di candela), Kahn ha spiegato di aver smontato e rimontato con fatica alcuni blocchi del racconto, lasciandone fuori circa due terzi.

Grazie a un lavoro durato anni, seppur saltuario, è riuscito a concentrarsi su pochi punti scelti, dal tema della Legge sul digiuno alla parentesi fantastica sui cani volanti, conservando altre parti fondamentali da un punto di vista drammaturgico, compresi i dialoghi con il ‘cane amico’, individuato nell’ultima figura in prima fila a destra tra il pubblico.

 Ha anche aggiunto che a muovere il suo personale interesse è sicuramente il nesso tra la riscoperta dell’identità ebraica di Kafka e la sua attrazione per il lavoro degli attori tradizionali yiddish orientali, piuttosto che per le attività circensi, dove allora non mancavano le esibizioni con i cani.

Va ricordato che è dello stesso periodo anche lo straordinario racconto ‘Il digiunatore’, che parla appunto del mondo del circo e delle crudeli ‘attrazioni umane’ allora di moda.

 Kahn, che oggi si dedica prevalentemente all'insegnamento, si è formato come attore con Grotowski in Polonia dal 1973, vivendo appieno gli anni in cui il regista del piccolo teatro di Opole cominciava ad essere considerato un punto di riferimento a livello internazionale. Poi, dal 1985, lo ha seguito anche nel periodo cosiddetto di Pontedera. In quel contesto è stato uno dei protagonisti, per esempio, di ‘Laggiù soffia’, memorabile riadattamento di ’Moby Dick’ nel 1986/87, che valse il premio Ubu al regista Roberto Bacci, il cofondatore del Centro toscano per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale in cui si trasferì il Teatr Laboratorium in fuga dalla Polonia.    

Jerzy Grotowski, morto a Pontedera nel 1999, in un celebre ritratto dei primi anni Ottanta
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LE PULCI DEGLI ATTORI YIDDISH

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 In realtà Kahn e i suoi amici produttori di scuola Kantor, presentano così ‘Il Cane’ (che nel 2025, per esempio, è già annunciato al Teatro Garage di Genova): ‘Nel 1922, mentre era in vacanza a Planá da sua sorella, Franz Kafka scrisse un racconto ‘Le indagini di un cane’. Aveva trentanove anni. Si stava godendo un momento di remissione dalla tubercolosi, la malattia che lo avrebbe ucciso due anni dopo. 

 Era stato appena mandato in pensione dalla compagnia di assicurazioni per cui lavorava e con fatica tentava di scrivere gli ultimi capitoli del suo romanzo ‘Il Castello’. Planá era un paesino di campagna sulle rive del Luschnitz, con una stazione ferroviaria sulla linea Praga-Vienna. In una lettera si lamentava del rumore della vicina segheria e annotava nel suo diario: ’27 luglio – ieri sera passeggiata con il cane’.

 Scrisse questo testo, cosa rara per lui, in prima persona, come se fosse lui stesso il vecchio cane, il ricercatore scientifico e talmudico che ricorda e commenta episodi della propria vita. Nella società canina che descrive, gli umani, letteralmente invisibili e muti, si manifestano tuttavia, per una sorta di umorismo cinico, nell’inspiegabile vuoto che circonda i cani musicanti e i cani aerei, i rituali alimentari e la musica’.

 Per quanto riguarda l’aspetto storico che fa da sfondo alla natura intimamente teatrale del testo sul Cane, bisogna ricordare che uno dei primi e più violenti scontri di Kafka con il padre avvenne proprio a causa della sua frequentazioni degli attori yiddish e in particolare a proposito dell’amicizia di Franz con l’attore Jizchak Löwi: ‘chi va con i cani, porta a casa le pulci’ fu lo sprezzante giudizio paterno.

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SONO IO QUELLO DEL CHI SONO IO?!

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 In un articolo dedicato al ricordo di Kafka, verso la fine degli anni Trenta lo stesso attore yiddish Jizchak Löwi, che quando si trovava a Praga veniva invitato da Kafka ad accompagnarlo in giro, e fu accanto a lui anche in sinagoga, per la cerimonia di circoncisione del primo nipote, racconterà quel che alla fine del rito lo scrittore gli confidò a bassa voce, e cioè che era sicuro che nell'arco di una generazione si sarebbe consumata la definitiva laicizzazione degli ebrei assimilati.

  Secondo lo studioso di letteratura tedesca Guido Massino (che riproduce il citato articolo di Löwi in "Fuoco inestinguibile. Franz Kafka, Jizchak Löwy e il teatro yiddish polacco", Bulzoni 2002), la circoncisione del nipote Felix è l'episodio scatenante della riflessione di Kafka sulla transizione irreversibile dell’ebraismo occidentale.

Un fenomeno in cui il giovane Franz si sente così immerso al punto da definire la propria generazione con il termine 'Übergangsmenschen', uomini di transizione, e da considerare Praga la città in cui le religioni si mescolano e si confondono, nonché l'ultimo avamposto della 'westjüdische Zeit', l’epoca ebraico-occidentale.

Si noti tra parentesi che per Kafka, come scriverà in una lettera a Brod del 1920, la parabola cadente della tradizione ebraica mitteleuropea assume in qualche modo al massimo livello la crisi stessa del pensiero occidentale, portando agli esiti estremi il nichilismo europeo.

 Tornando all'amico attore, una decina di anni dopo la morte di Kafka, tra i tanti racconti che giravano su quello che era successo durante i primi rastrellamenti nazisti nel ghetto di Varsavia, si parlava anche di un attore ebreo che aveva dato i numeri, quando l’avevano arrestato per spedirlo al campo di Treblinka, continuando a urlare le sue proteste anche sul camion, di fronte agli altri deportati.

Alcuni ragazzini che riferirono l’episodio dissero che si trattava dell’attore conosciuto per il suo pezzo forte in cui si calava nei panni del ‘batlen’, mendicante e mezzo pazzo. In questa gag la domanda-tormentone ripetuta fin dall’inizio era: ‘chi sono io?’.

Si trattava presumibilmente dello stesso Löwi che era stato intimo di Kafka, e anche sul camion del trasporto continuava a prendere botte e a implorare di lasciarlo perdere, ripetendo che lui era il famoso attore del ‘chi sono io?’: ‘sono io quello del chi sono io?’, ‘sono io l’attore del chi sono sono io?’, ed esibendo pure il suo nome francese: ‘Lei non sa chi sono io? Io sono Jacques L.’...

La citazione

Che cos'è il teatro ricco? E' la forma artistica della cleptomania, (...) allestisce spettacoli-ibridi, conglomerati privi di un nucleo omogeneo, quindi non coerenti, così che il teatro nella sua 'personalità' specifica si perde.

Jerzy Grotowski, 'Per un teatro povero' (trad.it. Carla Pollastrelli per ed. La casa Usher 2015)
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TORNARE ALL'ESSENZIALE SI PUO'?

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C’è un terzo nesso sottostante che rende di notevolissimo interesse per gli appassionati questo lavoro di Kahn. Bisogna partire dal filo rosso fondamentale che lega la letteratura di Kafka e Joyce alla rinascita del teatro contemporaneo, in particolare attraverso Samuel Beckett, come sottolineato per primo dal grande critico - anche lui polacco - Jan Kott.

E’ ancora da indagare meglio, invece, il tema di quanto l’opera riformatrice di Grotowski - il teatro povero, la santità dell’attore e via riducendo - sia legata anche al teatro dell’autore di ‘Aspettando Godot’, inteso proprio come la pratica degli allestimenti stessi che Beckett seguì o diresse delle sue opere.

 Ed è per questa via che si torna un po' anche al Cane di Kafka, che secondo le analisi letterarie più attendibili, muovendo da una allegoria della recisione dei legami sociali che attraverso la religione forniscono la sola risposta possibile alla ricerca della verità, verte fondamentalmente ‘sull’oblio collettivo dell’essenziale’ (Claude David). 

 Ne parla anche in un’intervista su Grotowski, curata da Lorenzo Mucci, che Kahn stesso ha rilasciato qualche anno fa alla rivista universitaria ‘Prove di drammaturgia’. Domanda Mucci: 'Noto, in entrambi (Beckett e Grotowski), una tendenza a ricostruire le condizioni basilari ed essenziali della relazione umana, partendo da presupposti di un quasi totale annullamento delle possibilità di rapporto interpersonale, della comunicazione stessa. In Beckett, in particolare, la ricostruzione avviene attraverso la riscoperta, da parte dell’uomo-attore, delle capacità di gioco, dell’ingenuità'.

 La risposta di Kahn è complessa: ‘Forse ciò che è comune ad entrambi risiede nel fatto che la ricostruzione della relazione umana e teatrale non avviene in base ad un’indagine di tipo psicologico, ma attraverso la realizzazione di azioni da parte dei personaggi. Ho sentito Grotowski affermare che il problema fondamentale dell’attore, la sua presenza in scena, si può risolvere almeno in parte, concentrandosi su ciò che il personaggio fa piuttosto che su ciò che pensa o sente’.

Stefano Randisi con Enzo Vetrano in 'Aspettando Godot' di Terzopoulos per ERT (foto di Johanna Weber)

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