" /> Lassù tra le montagne si balla all'insegna della natura: Bolzano Danza fa 40 con un programma festoso e superlativo

Il respiro dell'anima, nel luogo della vita: anche dal paesaggio può ripartire il teatro. 6/ La lezione di Filippo Andreatta con OHT

Un momento del nuovo 'Frankenstein' di OHT (foto di Giacomo Bianco)

 Pronti per un piccolo triplo salto mortale? 

 Il nuovo lavoro d’arte drammatica post-teatrale di Filippo Andreatta con il suo OHT, ‘Frankenstein’, è arrivato a Milano, per il festival Presente Indicativo del Piccolo Teatro, in una fabbrica dismessa di grafica industriale dove ora ha sede l’associazione culturale e galleria d’arte Assab One, in zona Cimiamo, la sera dopo la pomposa cerimonia di premiazione, in diretta tv da Cinecittà a Roma, dei David di Donatello.

 E oplà! Primo salto, anche se il cinema entra nel discorso solo incidentalmente…

 La stessa sera del 4 maggio, a Milano, un altro riconosciuto protagonista del rinnovamento della scena italiana, Fabio Cherstich, concludeva la presentazione di un suo nuovo allestimento ‘ibrido’, sulla storia di tre artisti underground newyorchesi ai tempi dell’Aids, al PACTA Salone dei Teatri in via Dini 7, zona Abbiategrasso Chiesa Rossa. Questa è stata la sede originaria del CRT Centro di Ricerca per il Teatro, che ha festeggiato i 50 anni dalla fondazione con questo nuovo appuntamento di FOG, il festival di Triennale Teatro, che poi appunto è anche CRT-Teatro dell’Arte.

 Tra le eredità più pregevoli dello storico CRT, con tante straordinarie stagioni riassunte dai manifesti conservati sulle pareti intorno allo scale che portano al salone di via Dini, sicuramente va sottolineato il riconoscimento di  Tadeusz Kantor come figura cardine di una nuova dimensione dell’arte drammatica. Era esploso come fenomeno ormai il ‘teatro povero’ di Jerzy Grotowski, quando s’è affacciato sulla scena europea quest’altro grande autore polacco invitando a fare un salto di dimensione che ha variamente chiamato prima ‘Teatro Zero’, poi ‘Teatro Informale’ e infine ‘Teatro della Morte’. 

 Kantor, tra l’altro, è stato anche il primo a denunciare la profonda crisi culturale dell’Europa, nella quale si potevano inscrivere anche, per il mondo dello spettacolo e del teatro in particolare, la cristallizzazione in canone di una certa avanguardia degli anni Settanta e la vuota ripetitività di un certo impegno politico (e opla!, secondo salto).

 Tra i pochi che di recente hanno saputo ricordare degnamente il seme storico di questa Ricerca per il Teatro, nel Centro milanese che di fatto contrapponeva una diversa proposta rispetto alla linea dominante del Piccolo strehleriano, si poteva notare il fondatore di ‘Scena’ Antonio Attisani. L’esimio professore universitario ha voluto ricostruire anche l’evento dello strano successo de ‘La classe morta’ di Kantor e del suo manifesto pressoché contemporaneo di certificazione del decesso appunto anche del ‘teatro teatrale’, più o meno tradizionale che fosse, e di denuncia della ‘deriva opportunistica del teatro impegnato’. 

 Attisani è anche un esperto competente che si può pure permettere, a partire dall’ammissione del fallimento personale come direttore artistico a Santarcangelo, di schierarsi contro i festival teatrali: ’sono una manifestazione di falsa coscienza di chi li organizza’, finalizzata a un facile risultato d’immagine, per distrarsi dal compito decisivo d’investire ‘su un lavoro continuativo’.

 E, opla!, con triplo salto mortale si può tornare al nuovo ‘Frankestein’, che poi è un racconto tutto sui generis, a partire dalla contestualizzazione storica all’inizio dell’Ottocento, del mito del mostro di Mary Shelley, con una spiccata attenzione al rapporto uomo-natura, intesa anche proprio come natura interiore dell’uomo che fa quasi da specchio al mondo esterno.  

 Come spettacolo si colloca, con coerenza assoluta tra linguaggio e contenuto, sul versante di quel ‘teatro di paesaggio’ con cui sinteticamente si cerca di chiudere in una sorta di sotto-genere la proposta di Andreatta e di altri artisti europei che tendono a lavorare all’aperto, fuori dalle sale e dai palconscenici. Invero, OHT si presenta propriamente così: ‘Fondato nel 2008, OHT [Office for a Human Theatre] è lo studio di ricerca del regista teatrale e curatore Filippo Andreatta, il cui lavoro si occupa di paesaggio e di politica personale sottilmente affrontata nello spazio pubblico e privato’.

Un ritratto di Filippo Andreatta (foto di Giacomo Bianco)

 Ora, per cominciare a tornare all’indietro in questo nostro sproloquio saltarello, una capriola mortale dopo l’altra, il punto relativo ai festival riguarda senza dubbio la natura di proposta performativa complessa di un allestimento come ‘Frankestein’. Richiede uno spazio di rappresentazione non teatrale piuttosto ampio, che sia alla Centrale Fies trentina da dove è partito o in un ex fabbrichetta come Assab One. E obbliga pure gli spettatori a impegnarsi in uno sforzo di ricezione notevole, radicalmente diverso da quello normale su una comoda poltrona teatrale, e casomai più simile alla visita attenta ad una mostra d’arte contemporanea. 

 Per entrare in questo ‘Frankenstein’ si deve seguire da vari punti di vista, con luci più suggestive che illuminanti, il vero e proprio paesaggio narrativo ricreato e percorso dalle due performer (Silvia Costa e Stina Fors, perfette anche nel non incombere mai per non distrarre dalla costruzione stessa), a tratti seguendone le voci e a tratti anche i testi sui sovra-titoli, lasciandosi avvolgere dalla costruzione di suoni (eccezionale il ruolo del musicista collaboratore di OHT Davide Tomat).

 Non è un paesaggio per vecchi, no, decisamente: infatti l’età media degli spettatori è, a occhio e croce, ben più bassa di quella che si vede nelle sale del Piccolo. E tra i due o tre signori con l’aria più borghese consolidata, di cui si riesce a cogliere qualche spizzico di commento all’uscita, prevalgono perplessità e irrequietudine, forse anche per crisi d’astinenza del comodo punto di vista dalle poltrone di velluto di rosso.

 Già, arrivando al secondo salto all’indietro, non è che Andreatta manifesti proprio l’intenzione alla Kantor di attirare-e-respingere il pubblico: non punta certo a provocare, come cercava il maestro polacco, la stessa reazione che un uomo ha di fronte a un morto. Non dichiarerebbe mai ‘non mi riguarda’, come faceva Kantor, se lo spettatore prova disagio perché ‘deve trovare un modo di comportamento’ diverso all’interno dell’evento rappresentazione.

Non va insomma perseguendo, il nostro autore nato a Rovereto nel 1981 e laureato in architettura al Politecnico di Milano, obiettivi di tipo ideologico-teatrale rispetto al pubblico, per far ‘perdere la motivazione stessa di essere spettatori’, come teorizzava il maestro polacco già pittore accademico. 

 Eppure, la grande lezione kantoriana, che sia effettivamente stata assorbita o meno, sembra risuonare come eco lontano nelle scelte di Andreatta. E questo anche aldilà dell’intento di perseguire, in modo diverso e originale, la stessa ‘ricerca del luogo della vita’ al posto del teatro.

 Ci sarebbe pure la suggestione del non poco significativo dettaglio che anche una sparuta truppa di OHT è arrivata addirittura su un ghiacciaio per una riunione-rappresentazione, la ‘Frankestein - reading session, 79/80* N parallel’ alle Svalbard, con la lettura intorno a un falò del testo originale di Mary Shelley.

Solo Kantor aveva osato fare un'incursione in natura così estrema con la sua compagnia Cricot, abituata alla rappresentazioni nelle cantine, nelle sale d'attesa alle stazioni, nei caffè, nelle lavanderie e una sola volta, appunto, dentro un gelido ghiacciaio. Peraltro, il logo stesso Cricot, un gioco di parole che anagrammato riporta al polacco ‘To cyrk’, è un circo, è alquanto indicativo dell’orizzonte post-teatrale kantoriano. 

 Per questa via che l’attuale Professor direttore del Piccolo Claudio Longhi definirebbe ‘liminalmente tassonomica’, si potrebbe spiegare un po’ la chiamata di Andreatta a Presente Indicativo: se Cricot alludeva al circo, OHT, come si è detto, sta per ufficio di ‘teatro umano’, una definizione che suona anche come riferimento all’aggettivo-slogan prediletto di Giorgio Strehler, che ha voluto intitolare ‘Per un teatro umano’ la summa del suo primo magistero, con la raccolta di ‘Pensieri scritti, parlati e attuati’ pubblicata da Feltrinelli nel 1974. 

 Lasciate da parte, poi, ogni malizioso retro pensiero che si può fare seguendo la tesi di Attisani sui festival come facile modo di salvarsi la coscienza e mostrare apertura mentale alle avanguardie. L’apprezzabilissima scelta di ‘Frankenstein’ in apertura di Presente Indicativo può avere un’ulteriore lettura, che sembra quasi interna alla scena teatrale milanese anche se riguarda scelte editoriali più ampie.

Andreatta fino ad oggi, non per caso, è stato ospitato in Triennale (prima quand’era solo CRT e poi più di recente per FOG) dove sicuramente un po’ ancora soffia qualche refolo di Kantor nell’aria, e dove trovano più spesso e volentieri asilo le nuove esperienze ‘ibride’ internazionali. Forse il Piccolo, finalmente, vorrebbe non risultare ancora così attestato sul teatro di prosa tradizionale.  

 E veniamo all’ultimo salto mortale, che era poi il primo, relativo ai David, ai premi e a certe scelte del mondo dello spettacolo italiano che qualunque lettore dell’inattuale Kantor liquiderebbe come facili e opportunistiche derive.

Per non parlare di cinema e della manifesta sordità della giuria del David al linguaggio artistico più visionario (con i non-premi a ‘Discoboy’ e ‘La Chimera’), restiamo al teatro. Nell’ultima incursione milanese a FOG Andreatta aveva presentato uno dei lavori che hanno contribuito a disegnare il profilo di OHT sulla nuova scena italiana, ‘Curon/Graun - La storia di un paese affogato’. 

 Parliamo di uno spettacolo di più facile impatto rispetto a ‘Frankenstein’, seppur sempre ben poco banale, così senza un testo e senza voci umane, con musiche sofisticate di Arvo Pärt in onore di Britten, e soltanto suggestioni del paesaggio delle acque del lago di Resia sullo sfondo incantevole di un’istallazione artistica curata da Paola Villani, con un campanile che viene pian piano sommerso dall'acqua.

Curon/Graun, che ha poi vinto ‘in casa’ il premio OPER.A per il teatro musicale della Fondazione Haydn di Bolzano e Trento, è arrivato fino alla candidatura a un Premio Ubu, come ‘miglior allestimento scenico’, niente di più, ma era già qualcosa.

Poi, ovviamente, alla novità di un’installazione artistica così d’impatto in un lavoro non tradizionale ma eccellente di un outsider, è stata preferita la solita perfetta scena da teatro ronconiano, impeccabile per carità, buona per perpetuare, insieme con un cast d’altissimo livello, le posizioni apicali dei soliti Registi e Autori di punta del sistema.

  La questione estetica è delicata e controversa, la ricerca di un linguaggio nuovo è sempre rischiosa ma sarebbe necessaria. ‘Non bisogna limitarsi a illustrare le proprie idee sulla scena’ - diceva Kantor - ‘perché ciò che ci guida (Dio non c’entra) è fuori di noi e il ‘controllo permanente della coscienza esclude i concetti di fascino e bellezza’. In questo - riportando sempre da Attisani - ‘Kantor sottoscrive l’invocazione di Eleonora Duse: gli attori devono morire di peste, il teatro non può essere fatto per ‘soddisfare il gusto volgare della plebe’ (come succede con i vari realismi di oggi)’.

 Per fortuna, Andreatta come tutti gli altri protagonisti di questa nostra provvisoria rassegna sulla nuova generazione che potrebbe/dovrebbe cambiare il sistema italiano, non hanno bisogno né dei soliti premi né di detestare gli attori o tutti gli altri elementi che oggi contribuiscono a comporre il teatro tradizionale ‘di successo’.  

 Si noti anche soltanto che il prossimo impegno importante di OHT è portare la loro strana roulotte denominata Little Fun Palace, sotto al magnifico Sas de Pütia (una cima dolomitica delle Odle tra val Badia e val di Funes, la cui spettacolare parete nord s’affaccia su uno dei prati più alti e più belli delle Alpi) e allestire di nuovo il progetto cosiddetto della ‘scuola nomadica’, dal 2 al 14 giugno. Una decina di figure esperte non solo di teatro e perfomance, ma anche di paesaggio e di cultura locali, con dodici ‘allievi’ selezionati con un open call, daranno vita a una serie di attività e di eventi strettamente legati al territorio e al paesaggio, in cui ospiti e pubblico si mescolano liberamente.

 Per chiudere senza tornare all’inizio, prima dei vari salti mortali, Filippo Andreatta alla fine di ‘Frankenstein’ è uscito dall’oscurità dietro la sua creazione (probabilmente si era mosso tra il retro dei vari pezzi di scena e il banco di regia) per accogliere in un abbraccio liberatorio in fondo sala le due performer che scappavano dal fronte degli applausi.

Era lì in giro con il suo bel regolare grembiulino scuro da lavoro, molto trentino-altoatesino, come un giovane artigiano o contadino di un paese delle nostre montagne alpine.

Sembrava lui stesso, Andreatta, una sorta d’incarnazione di quel certo particolarissimo minimalismo artistico che anche stavolta porta in scena, nonostante la materia indicherebbe tutt’altra direzione: il mito di Prometeo e Frankestein, l’arte del primo romanticismo e l’anno in cui un’eruzione vulcanica in Indonesia arrivò fino a cancellare l’estate, il momento storico di maggior estensione e pienezza del grande ghiacciaio sotto il Bianco e lo smarrimento interiore dell'uomo…

 Si può parlare di tutto questo con qualche tubo di plastica e una piccola riserva d’acqua, quattro ceppi di legno per un falò e un pezzo d’albero spoglio, un’ampolla e un busto di cera, una foto da cartina alpinistica e poche luci? Un poeta, un artista, un musicista e anche un autentico figlio del miglior teatro contemporaneo, sanno inventare la risposta.

 Chi non ha potuto ancora vedere neanche un lavoro di OHT può sempre farsene una vaga idea lasciandosi suggestionare dalle atmosfere dell’EP di David Tomat a partire da quella che viene evocata con il titolo paradossale, che volendo negare rinforza il valore simbolico del respiro dell’anima: ‘Una farfalla è una farfalla è una farfalla è una farfalla’. 


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