La Grecia torna al ruolo guida anche nel post-teatro: prendete nota di quest'altro nome, Mario Banuschi
02.12.2024
La monumentalità dei primattori, la tragedia greca e le serie tv, il realismo filosofico e il dilemma del sorgo: ciance varie dopo 'La ferocia'
E’ proprio vero che a teatro le sorprese non finiscono mai, almeno guardando dal punto di vista degli spettatori appassionati. E così, alla fine dell’attesa prima milanese al Teatro Fontana de ‘La Ferocia’, dal noto romanzo Premio Strega 2015 di Nicola Lagioia, capita subito di vedersi ribaltati i punti di vista di partenza.
Qualcosa volevano pur dire quelle due-tre grida agli attori, ‘braviii’, che volano nel giro degli applausi, e subito dopo un distinto ‘bravooo’, al singolare, quando rientra per primo e resta un attimo solo sul palcoscenico Leonardo Capuano, strepitoso protagonista principale, nei panni del cattivo imprenditore Salvemini.
Per non dire del vigore del consenso, frammisto a commenti genere ‘che brava’, a mezza voce, rivolti al vicino di poltrona, quando al centro della compagnia s’avanza invece Francesca Mazza, che in scena fa la moglie del protagonista e regala due pezzi di bravura ‘worth the price’, anzi, anche il solo monologo sul tradimento vale il biglietto, intero, a 23 euro.
Eppure, più di uno dei numerosi presenti - tanti, davvero tanti, e tra i tanti di sicuro anche molti dei volti riconoscibili di addetti ai lavori del mondo teatrale - , si sono spinti, sotto la pioggia scrosciante del 27 febbraio a Milano, in questa zona a margine dell’Isola, quartiere pur automobilisticamente impervio, soprattutto per valutare la nuova creazione del collettivo pugliese che porta il nome di Vicoquartomazzini.
E qui si deve aprire una piccola parentesi. Il singolare logo riproduce l’indirizzo del primo monolocale in cui hanno vissuto, in regime di tarda comune anni Novanta con altri ragazzi, i due fondatori del collettivo: Gabriele Paolocà, un immigrato al Sud da Roma, e Michele Altamura che, come suggerisce il cognome stesso, è un figlio doc dell’attuale grande Città Metropolitana di Bari.
Vicoquartomazzini, aldilà del consueto magro riconoscimento ministeriale come compagnia, vive grazie al sostegno della Regione Puglia ma, curiosamente, insieme, anche della Liguria, intesa come finanziatrice dell’attivissimo Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione SCARTI(1), che ha tenuto a battesimo anche questo ‘La ferocia’.
Un attimo di pazienza, ché manca di specificare il ruolo di Elsinor, ovvero la cooperativa che gestisce il Teatro Fontana di Milano, e che de 'La ferocia' è co-produttore insieme con il prestigioso Roma Europa Festival, il LAC di Lugano, il Teatro di Bari e il Teatro Nazionale di Genova.
I credits possono pure essere noiosi, ma spesso sono indispensabili per inquadrare il caso.
E il caso vuole che gli aut-attori Altamura e Paolocà, arrivati ormai poco meno che ai quarant’anni, hanno collezionato riconoscimenti e spettacoli per così dire ‘di nicchia’, fino al clou del premio come ‘compagnia emergente 2021’ di Hystrio. Adesso tocca loro di dover sostenere la maturità, con l’upgrade nel ‘teatro istituzionale’. Impegno complesso, che oltretutto fa parte di quel ciclo di esami che non finiscono mai.
E come se la singolare combinazione di ‘La ferocia’ e Lagioia fosse pure premonitoria, la squadra di Vicoquartomazzini deve affrontare, oltre alla felicità per la promozione nelle serie maggiori, la crudeltà d’animo insita nel sostantivo femminile del titolo e troppo spesso anche nello spirito delle istituzioni o di chi riesce a sguazzarci dentro.
Un’occhiata rapida al vocabolario, anche solo al Dizionario Treccani online, fa annotare che il significato del vocabolo scelto da Lagioia per il suo romanzo, si possa spiegare con due semplici esempi pertinenti. Il primo è: ‘la tradizionale f. di quelle tribù antropofaghe’, il secondo: ‘dare prova di grande f.’. Già.
Ora, non avrebbe niente di spietato il fatto di poter contare su un romanzo contemporaneo di notevole richiamo, in prima battuta. E nemmeno di poterci lavorare sopra con una drammaturga professionista considerata tra le più brave, come Linda Dalisi, collaboratrice di Antonio Latella anche nelle recenti riscritture teatrali de ‘La valle dell’Eden’, di ‘Chi ha paura di V.W.’ e de 'La locandiera'.
E quale crudele angheria sarà mai potersi permettere di scegliere un primattore così eccellente che da anni viene chiamato a insegnare recitazione, com'è il caso di Capuano, già docente con Alessandro Serra dopo il mitico ‘Macbettu’?
Dovrebbe poi muovere forse qualcuno a compassione anche soltanto l’opportunità di scegliere di affidare i due pezzi da ‘picco attoriale’ a una professionista talmente brava da collezionare aggettivi come ‘monumentale’ (cit. da Mario De Santis per minima&moralia)?
Francesca Mazza, che avrà pure racimolato anche qualche Ubu con Fanny&Alexander, ma vale più di tante premiate Duse o David, non si è mai montata la testa: anzi, anche l’altr’anno con ‘Il Gabbiano’ di Leonardo Lidi ha dimostrato di saper collaborare al meglio con registi che, per età e per curriculum, potrebbero pure sembrarle ‘sbarbatelli’.
Il valore del capitale umano investito, stando a buone fonti interne, si è visto subito alle prime prove, che si sono svolte in quel di Sarzana, dove SCARTI gestisce anche il teatro degli Impavidi. E ci vuole coraggio davvero, prima ancora che a voler dirigere Capuano o Francesca Mazza, anche solo a stare in scena accanto a loro, e Altamura e Paolocà sono anche attori. Alla fine è impossibile non farsi rubare gli applausi, e ‘che te lo dico a fare’? Forget about, come ripeteva Al Pacino nel film, meglio lasciar stare.
Capuano così perfettamente animalesco nella fetenzia ‘senza se e senza ma’ del personaggio; la Mazza di Cremona che ha steso subito tutti, già tra gli Impavidi sotto le Apuane, con un’interpretazione a impronta del monologo-chiave che gli astanti ricordano ancora come ‘da brividi’.
A un certo quale esito di cannibalizzazione come da primo esempio Treccani, afferiscono anche alcune riflessioni e associazioni ascoltate qua e là all’uscita del teatro, nel plauso generale per lo spettacolo.
Qualche spettatore avvertito, a proposito dell’insieme del risultato, evocava compiaciuto la nuova serie ’Succession’ e qualcun'altro addirittura ‘Twin Peaks’ di David Lynch. (Citazioni peraltro già fatte anche dai recensori più entusiasti, anche dai soliti amici degli amici dei siti cult che hanno urlato al miracolo di ‘una drammaturgia contemporanea che intercetta il presente nelle sue ferite profonde’).
Certo quel sapore di serie tv viene quasi sottolineato dai microfoni che purtroppo anche stavolta erano incollati sui volti degli attori, e in questo caso per fortuna che dalla fila R si vedevano male le facce con le stramaledette aste color carne.
Poi, nella scena di segno quasi Ho-Ho (Hopper e Hockney), quella finestra sul blu con dentro il narratore-deejay dava un’altra botta in senso post-televisivo.
Per non dire della scelta di lasciare da parte il dialetto e le parlate pugliesi, in favore di un italiano che illuminerebbe meglio la portata nazionale della ‘sineddoche’ della famiglia Salvemini…
Aveva fatto riferimento proprio a Lynch lo stesso Lagioia, in un intervento registrato trasmesso durante la presentazione pomeridiana dello spettacolo. Lo scrittore ha mostrato di apprezzare persino la scelta di non riprodurre a teatro la scena cruda, appunto stile ’Twin Peaks’, con cui si apre il romanzo.
E ha dichiarato che la versione teatrale conserva comunque la storia del romanzo, anzi la scarnifica fin quasi allo scheletro, che sarebbe proprio da tragedia greca.
Hanno un bel da aggiungere, sempre generosamente ma forse con un pizzico di moderazione, i Vicoquartomazzini, che subito dopo hanno parlato addirittura di ‘La ferocia’ come di un testo quasi di ‘realismo filosofico’. Ma, poi, tra il pubblico, all’uscita, nessuno s’interroga sull’eventuale eredità di Balzac o del suo cugino teatrale Emile Augier, in questo feroce spettacolo lagioiano di e con Altamura e Paolocà.
Il massimo del filosofico che si possa ascoltare, sulle scale che riportano in strada dalla sala, è qualcuno che prova a porre al vicino ‘il dilemma del sorgo’.
Trattasi di una questione che nasce per via dell’uso di alcune canne, che vengono piantate o rimosse dagli attori, evidentemente sfruttando appositi buchi nel simil-salotto di casa con affaccio in simil-giardino, ovvero l’ambiente asettico, freddo, post-moderno, in cui viene riproposta la tragedia dei Salvemini.
C’è chi si domanda se si trattasse di vere e proprie canne di sorgo, appunto, piuttosto che di cannucce di palude, oppure se invece fossero di plastica (come in effetti erano). A seguire arriva chi s’interroga sul significato simbolico, per esempio, che le canne rappresentino quella parte malsana naturale, che può anche venire strappata ma riemerge sempre, o chissà cos’altro.
Sul dilemma del sorgo sorge pure il dubbio, infine, che assomigli a un omaggio allo stile magistrale di Peter Brook, a quei rametti o al bastone e al pezzo di legno che erano i soli elementi di scena, per esempio, ancora nell’ultimo ‘The Prisoners’ rappresentato a Roma nel 2018.
Ma sono chiacchiere di spettatori curiosi o esigenti; come si diceva, quasi tutti parlano della bravura dei due primattori, e di un po' di tutti gli interpreti, anche delle parti minori (il dottore scoppiatone e il genero sfortunato). O almeno così sembra.
Sempre che l’aver prestato tanto orecchio a questi complimenti non nasca dall’eco di una rilettura casuale, quasi contemporanea, del saggio ‘Attenzione ai primattori’ che lo storico Claudio Meldolesi, un’autorità in materia di regia, pubblicò su ’Scena’ nel 1982, per sottolineare che in Italia... Ma questo è davvero un altro discorso, vale la pena di riprenderlo a parte.
Resta da dire dell’esame di maturità dei Vicoquartomazzini, che bisogna andare a vedere al Fontana entro il 3 marzo, anche se il giorno dopo la prima, cioè il 28 febbraio, erano già usciti i tabelloni con i giudizi della commissione di addetti ai lavori, a margine di un altro spettacolo in Triennale per FOG.
Risultato: hanno superato la prova anche a Milano, con tanto di placet altolocati; seppure dal basso qualcuno sussurra: maledizione!, così non torneranno mai ai giorni felici della Comune barese.
TANTO ‘IMPAVIDI’ DA CONSIDERARSI ANCORA ‘SCARTI’
NOTA (1) (Dal sito https://www.associazionescarti.com)
Scarti nasce come impresa culturale nel 2007 da un gruppo di giovani artisti, operatori e tecnici del territorio spezzino. Nata quasi per gioco, nel 2022 diviene Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, terzo ente teatrale stabile della Regione Liguria.
Scarti si contraddistingue per l’intenso e costante lavoro sul territorio, per l’attenzione e l’inclusione di fasce a rischio di emarginazione – adolescenti, anziani, disabili e detenuti -, per la produzione e circuitazione di spettacoli a livello nazionale e per l’organizzazione di stagioni, rassegne e festival di arte performativa. Il centro organizza la stagione di teatro contemporaneo Fuori Luogo La Spezia e gestisce, curandone la programmazione, Il D!alma – Cantiere Creativo Urbano alla Spezia e il Teatro degli Impavidi di Sarzana.
Il lavoro di Scarti non si esaurisce nella programmazione e gestione di spazi dediti al teatro, il centro co-organizza, con l’Associazione Fuori Luogo, Fisiko! – Festival internazionale di azioni cattive, che agisce negli spazi dell’Ex Ceramica Vaccari a Santo Stefano di Magra.
Produzioni in distribuzione:
VicoQuartoMazzini La Ferocia; Francesco Alberici BIDIBIBODIBIBOO; Antonella Questa, Marta Dalla Via Stai Zitta! (tutto il repertorio di Antonella Questa); Alice e Davide Sinigaglia Concerto Fetido; Frosini/Timpano OTTANTANOVE (tutto il repertorio di Frosini/Timpano); Francesca Sarteanesi Sergio; Francesca Sarteanesi Almeno nevicasse; Muchas Gracias Teatro Lei Lear; Francesco Alberici Diario di un dolore; Scenamadre Liberatutti; Scenamadre Tre; Alice Sinigaglia – Generazione Eskere Il canto del bidone; Benedetta Parisi, Alice Sinigaglia Funerale all’italiana