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'Sergi el memorioso' mette la tuta nera e prova a entrare nella centrale di manipolazione della storia

Sergi Casero Nieto in 'El Pacto del Olvido' (foto di Andrea Macchia).

 ‘Mah, c’è qualcosa che non mi ha convinto fino in fondo’, prova a dire l’unico spettatore che si dichiara perplesso, all’uscita di ‘El Pacto del Olvido’, venerdì 10 novembre, davanti alla sede di Zona K, al quartiere Isola di Milano.

In uno dei capannelli che si sono formati dopo il breve dibattito che è seguito allo spettacolo di Sergi Casero Nieto, l’improvvisato critico argomenta: ‘per esempio, quella tutina nera, che cosa mi sta a dire? Non è mica un operaio…’

  A parte che sul tema del nero e della Spagna, da Carlo V ai capolavori di Velasquez, si possono studiare intere bibliografie, per non dire del significato politico, anche a noi italiani tragicamente ben noto, di questo colore acromatico…

 A parte tutto, Sergi confeziona il suo monologo che ha per tema la rimozione dalla memoria collettiva del periodo franchista con un rigore estetico ammirevole, che nelle presentazioni viene attribuito alla sua formazione da designer. Lui stesso si pone all’uditorio con un sorriso solare sopra al vestito scuro in cui si è come ingabbiato, un ‘buzo de trabajo clásico negro’. 

 Così si direbbe consultando il catalogo spagnolo di ditta d’abbigliamento da lavoro, dove la parola ‘buzo’ - in luogo di un più semplice ‘mono’ (tuta) - sta all’origine per ‘muta’, e in traslato per subacqueo e palombaro. Il che ribadisce, appunto, il senso del racconto di un giovane adulto che vorrebbe andare a fondo per scandagliare nella storia di un Paese che si è fatto soggiogare per più di 35 anni da un dittatore fascista e poi, come all’improvviso, è ripartito con un grande colpo di spugna.

 In realtà, il narratore in scena con il 'buzo da trabajo' sembra anche un po’ l’operaio tecnico di guardia alla centrale: l’ambiente bianco-grigio pullula di cavi neri, che s’intrecciano sul pavimento; qualche lampadina a incandescenza scende dal soffitto; due sedie vuote da bistrot vengono messe in luce ogni tanto: la prima è per la nonna che il protagonista vorrebbe interrogare sul passato remoto, la seconda è per la mamma che ha vissuto dopo l’Olvido, ma è altrettanto reticente.

 Sergi sta perlopiù seduto e in moto sul classico sgabello con ruote, davanti a un banco da cui governa decine di prese e interruttori; si alza quando prende i trasparenti per le slide che proietta e manipola alla lavagna luminosa, e da sotto il proiettore estrae soldatini, pezzi di carta d’alluminio, cotone e flaconcino di solvente, garofani finti e altri piccoli oggetti all’uopo. Lunghe e significative pause di silenzio accompagnano questi gesti scenici.

 Il racconto procede con un certo brio ed è anche divertente, nonostante il tema: il narratore-operaio-subacqueo sa bene come dosare la leggerezza e anche nel tono di recitazione non s’impanca ma butta lì con understatement. 

 Ha giusto qualche momento di cedimento allo scarto attoriale classico, le poche volte che si ferma ad aprire un’edizione economica di ‘Finzioni’ di Jorge Luis Borges per leggere qualche brano di ‘Funes, o della memoria’.

 Da questo testo borgesiano di grandissima suggestione, Casero Nieto ha mutuato un po’ anche l’impalcatura del suo racconto teatrale, giocato sulla ripetizione di una serie di ‘mi ricordo’

I ricordi sono perlopiù di piccoli fatti che hanno stimolato la sua curiosità verso il passato, e perciò questa reiterazione di 'mi ricordo' rende ancor più paradossale il frustante risultato d’inviti a cambiare argomento, che seguono puntualmente le sue interrogazioni alla nonna e alla mamma.

 ‘El Pacto del Olvido’ alla fine risulta un lavoro perlomeno stimolante, fosse anche solo per andarsi a rileggere il Funes di Borges o per riflettere sulla domanda che di passaggio il narratore butta lì, sull’origine dell’indifferenza nei confronti delle tragedie epocali che si consumano oggi sotto i nostri occhi, in primis l’ecatombe dei migranti nel Mediterraneo.  

 Alla fine, tornando a quella tuta nera, per chi ascolta con attenzione può sembrare un po’ persino la divisa da torturatore, tanto può rivelarsi inquietante questo racconto quasi grottesco di un piccolo non fatto familiare che apre squarci sul non detto collettivo. 

 E’ quasi più una conferenza che uno spettacolo, e l’autore stesso ha spiegato che non funziona bene nel contesto di una sala teatrale tradizionale. Eppure si può dire che sia un altro nuovo esempio di quel teatro civile o documentario che a Zona K lodevolmente provano a rilanciare. (1)    

Casero Nieto in scena mostra la pagina di un libro di scuola (foto di Alessandro Sala).

 Sergi Casero Nieto è nato nel ’91 Barcellona e questa sua proposta è stata affinata tra Matadero di Madrid e Centrale Fies di Dro, da dove è ripartito in una breve tournée che ha già toccato Torino e Milano.

Ha ammesso candidamente che in Spagna, a parte gli amici della sua generazione, che hanno condiviso con lui analoghe esperienze familiari, questo lavoro sulla manipolazione politica della storia non viene bene considerato: persino suo padre gliene ha parlato solo per alcuni dettagli minori e personali che ha visto in scena.

 Fuori dalla sala di Zona K, l’altra sera anche il promoter Domenico Garofalo, che cura la distribuzione della performance, si lamentava con gli organizzatori per la difficoltà di proporla proprio in Spagna, dove pure è stata da poco approvata una Legge della Memoria Democratica per correggere la precedente Ley de Memoria Histórica, che aveva appena camuffato l’Olvido…

 Francisco Franco, andato al potere dopo la sanguinosa guerra civile nel 1939, è morto nel suo letto a Madrid, il 20 novembre del 1975, per complicanze legate al morbo di Parkinson, di cui soffriva da anni.

 Manuel Vázquez Montalbán descrive così la reazione di Barcellona alla notizia della morte del dittatore: ‘La città si riempì di passanti, lo sguardo alto sui muri, la gola serrata in un prudente silenzio. Le guardie di sicurezza, la polizia e gli uomini delle formazioni paramilitari osservavano la manifestazione silenziosa e con il loro sesto senso udivano l'Inno alla gioia salire dall'anima cauta della città vedova, dall'anima saggia della città occupata’.

 ‘Funes el memorioso’ è un racconto paradossale ispirato alle notti insonne di cui Borges era vittima e alle sue teorie letterarie sull’opera aperta, anche se ha per tema gli eccessi della memoria, in modo così esemplare da aver ispirato la ricerca di alcuni neuroscenziati: ‘… La mia memoria, signore, è come una discarica di immondizia’.    

 (1) C’è anche chi preferisce usare la categoria di ‘teatro politico’, ma, come ben noto, tutto il teatro è politico, tutto, persino alla Scala e al Bagaglino. Il teatro è un’arte politica, non solo questo teatro esplicitamente civile. Il teatro si fa azione politica più che mai quando finge di baloccarsi con i miti greci o con i classici shakespeariani, e persino dietro al teatrino dei pupazzi c’è chi s’impegna giustamente con passione credendo che sia l’arte degli insurrezionalisti di cartapesta. 

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