Sveglia, milanesi! Sarete anche i numeri uno per qualità della vita, ma una bella lezione d'umanità ci vuole
20.11.2024
Licia Lanera sale sulla 'ronzinante' con Tondelli in 'Autobahn', e sempre a tutto volume spara 'Siamo solo noi' di Vasco Rossi
No, non che sia difficile raccontare la quarta replica milanese di ‘Altri libertini’, il nuovo lavoro di Licia Lanera, molto applaudito dal pubblico presente nel Teatro Studio Melato, la serata d’Ognissanti, dalle 20.30.
E nemmeno provare a suddividere, a fette approssimative, lo stramaledetto ‘sentiment’, come si dice oggi, dei vari spaccati di pubblico.
Si potrebbe parlare di autentico coinvolgimento emotivo per la folta rappresentanza di Boomer - ovvero di entusiasti lettori, magari già 40/45 anni fa, del coetaneo Pier Vittorio Tondelli -, variamente accompagnati, con diverse coppie al maschile com’era naturale aspettarsi.
Quei tanti che si sentono ancora un po’ amici di 'Pier', così continuano a chiamarlo quelli che lo ha conosciuto meglio e per estensione i fans, alla fine hanno cominciato a commuoversi già quando Lanera (spoiler, attenzione!) entra coi cappottoni scuri e le sciarpe rosso barolo da distribuire ai tre attori.
E si sono poi sciolti quando hanno visto uscire dalle tasche anche gli occhialini, godendo al volo del bagno di nostalgia nella ricostruzione triplicata un’epica immagine di Pier Vittorio Tondelli, la solita, la stessa della foto più rivista.(1)
Si notava un certo compiacimento, poi, anche da parte dei Millennial, nel riconoscersi cioè in una sorta di mitologia della gioventù bruciata post-rivolta, del Settantette nel caso, ma che, pur relativa alla generazione precedente, era così bene rimessa in luce da attori coetanei.
Spiccavano con il tono del ‘beh, lo sapevo', i componenti della piccola fetta mista tra le due generazioni di cui sopra, addetti ai lavori e/o amici che considerano già da tempo con un occhio di riguardo il teatro della Lanera.
All'uscita si potevano intercettare anche tre-quattro giovani di adesso, generazione Z o chissà, e se ne percepiva l’assoluto smarrimento, con commenti tipo: ‘dovrei provare a documentarmi, ho capito poco o nulla…’.
Del resto, i nostri Sessantotto e Settantette si studiano ormai soltanto in certe elitarie università di Scienze politiche, in primis quelle americane, e oggi sui device del mondo digitale i giovani non chiacchierano certo delle eredità e le dispute tra le precedenti generazioni, dei ribellismi giovanili che furono e dei diversi esiti, più o meno tragici.
E qui si arriva a toccare un punto sensibile che potrebbe facilmente far slittare la frizione anche all’appassionato dramaholico più generoso, data la conoscenza diretta della Bologna di quegli anni.
Per dirla con il magistrale ‘Boccalone’ della generazione Tondelli, che è Enrico Palandri, il problema letterario stesso di Pier è stato riuscire a far ascoltare la sua voce così particolare anche alla generazione precedente ai boomer, che allora era saldamente al potere.
‘Tondelli ha avuto una grande importanza per i suoi coetanei e i più giovani di lui, ma non è stato quasi capito da chi era più vecchio’ (citando poi coraggiosamente nomi e cognomi, da Arbasino a Fofi e Guglielmi: così scrive Palandri nella bella introduzione alla monografia di Roberto Carnero intitolata ‘Lo scrittore giovane: Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana’).
Non ha dunque nessun senso cascare per analogia in un tranello della stessa natura, per così dire di arroganze generazionali, a proposito del teatro anni Duemila della Lanera, lasciandosi magari ingannare dalla citazione di Tadeusz Kantor che lei stessa esibisce in una delle parentesi autobiografiche con cui costella qua e là l’intarsio originale di brani tondelliani.
E’ chiaro a tutti dove bisognasse casomai guardare, per ritrovare lo spirito autentico e profondo del teatro di Kantor, in questa sfortunata settimana quasi festiva milanese in cui il Piccolo ha confinato un gioiello assoluto come ‘Tragùdia’ di Alessandro Serra allo Streher, la ripresa dell’edizione del Buongiorno dell’Arlecchino strehleriano al Grassi, e al Melato questa chicca prodotta da Lanera con Teatro delle Albe, appena presentata a Roma Europa Festival.
Tra pochi giorni, oltretutto, arriverà al Teatro Studio un altro piccolo possibile gioiello teatrale radicale, ‘Il mostro di Belinda’, centrato sulla pregevole ricerca relativa alla phoné nelle rappresentazioni, che da anni viene condotta da Chiara Guidi, pezzo originale doc della Societas dei Castellucci’s che si è come ritagliata una propria nicchia sofisticata rispetto al mainstream 'post-drammatico' di guru Romeo.
E a proposito di voci e di suoni, bisogna registrare una prima piccolissima annotazione tecnica relativa a questo ‘Altri libertini’ d’Ognissanti. La rappresentazione è stata abbastanza disturbata, fin dalle prime parole introduttive storicistiche di Lanera, dagli inneschi e dagli scrosci dei microfoni ad archetto.
Verso la fine, addirittura, si è pure staccato un pezzo dell’asticella dietro alla nuca del malcapitato interprete del personaggio-tipo della ‘Milano da pere’.
Ora, non è purtroppo più un’eccezione la scelta di non affrontare a voce viva e vera nemmeno una piccola sala neo-elisabettiana come lo Studio Melato, oltretutto ormai riconfigurato con una gradinata centrale per avvicinare ancor più il pubblico alla scena.
Siccome quella dei microfoni risulta poi a tutti gli effetti anche una scelta estetica - oltretutto rischiosa, e incredibilmente persino alla terza o quarta replica nello stesso teatro -, rischia di essere considerata come la conseguenza di un tentativo di avvicinarsi al genere più facile dell'intrattenimento. Senza con ciò voler esibire nessuna presunzione generazionale e/o nessuna zelante rivendicazione kantoriana o grotowskiana.
Non che poi gli attori, Lanera compresa, con le astine sul volto siano stati meno bravi o meno capaci di portarci dentro lo stile di Pier Vittorio Tondelli, ma è abbastanza curioso che siano costretti a ricorrere ai microfoni nonostante un tipo di recitazione dove si pratica spesso e volentieri la scorciatoia di alzare la voce o gridare.
E non era affatto uno spettacolo misto o contanimato con telecamere e immagini, e men che meno scene riprese da altri ambienti, anzi si giocava lodevolmente tutto lì davanti al palcoscenico, con i tre personaggi tondelliani che si sono presentati in mutande e canottiere bianche.
E’ ben diverso il giudizio quando il ricorso all’amplificazione fa parte pienamente del racconto, per esempio, in questo caso, nello snodo di passaggio in cui questi ‘Altri libertini’ s'accostano alla frontman Lanera, davanti alle aste con microfoni appositi, per mettersi tutti a cantare come una band.
E ripetono con gli Skiantos ‘Sono un ribelle mamma’, tocco invero esilarante, non a caso di genere cosiddetto 'punk-rock demenziale'.
Per questa via, di risulta si arriva a toccare un altro punto generale, ripetendo il quale non si vuole assolutamente esprimere una critica specifica a questo lavoro, ma soltanto far (ri)battere la lingua sempre dove il dente duole.
Si nota parecchio ormai la moda di usare a teatro le canzonette, che non risparmia nessuno e sembra aver contagiato gli autori più giovani in particolare, e rappresenta spesso la scorciatoia più elementare per alleggerire e coinvolgere il pubblico.
Nel caso di ‘Altri libertini’ non c'è solo il momento Skiantos, più che centrato anche dal punto di vista drammaturgico - nonostante, a voler esser pignoli, quel celebre brano dati in realtà 1983, che vuol dire pochi anni dopo 'Altri libertini' ma ormai quasi in un 'mondo dopo', e l'amicizia di Tondelli con il leader della band Roberto 'Freak' Antoni sia ancora successiva.
Gli è che a dare il senso intero dello spettacolo, dalle prime battute al finale, è l’arcinoto ‘Siamo solo noi’ di Vasco Rossi che risuona in sottofondo.
Scelta alquanto pertinente, per carità, magari anche questa non così precisa filologicamente rispetto ad 'Altri libertini' (2), ma certo non così pretestuosa come tante volte capita di dover sopportare. Un genio rivoluzionario del Novecento come Maksim Gor'kij s'è appena beccato i suoi poveri in albergo che risorgevano, dal fondo buio della società moscovita pre-comunista, cantando mano nella mano 'Mio fratello che guardi il mondo' di Ivano Fossati.
E quanto una canzone possa sovrastare e prestarsi a far travisare un testo è presto detto.
Basti citare due o tre esempi che si possono considerare significativi a proposito del rischio di favorire la 'distorsione percettiva' di uno spettacolo teatrale per effetto dell'impiego di canzoni.
Nel 2023 Fausto Russo Alesi ha osato chiudere la sua riproposta de ‘L’arte della commedia’ di Eduardo De Filippo con un canonico quasi balletto post-ronconiano degli attori, sulle note di ‘Les comédiens’ di Charles Aznavour. Scelta che lo spettatore medio trovava giustamente alquanto godibile e garbata. Apriti cielo! Per quel certo addolcimento furbo dell'originale che la chiusa con Aznavour dichiarava, Russo Alesi si è poi preso delle randellate in testa dagli eduardiani doc.
In questi mesi il nuovo intrigante ‘Hamlet’ di Christiane Jatahy ha portato a casa tante critiche negative, basate principalmente - e paradossalmente - sull’esaltazione della bravura dell’interprete. E il tema chiave relativo alle capacità attoriali messe in mostra dalla splendida Clotilde Hesme, nasceva dal momento notevolissimo e stracitato in cui da figura tragica e combattuta passa di colpo al registro del grottesco, con un cambio di tono da applausi a scena aperta, mettendosi a cantare, in una sorta di karaoke familiare, ‘Can't Take My Eyes Off You’ con la voce stessa, parodiata, del padre.
Ultimo esempio, persino nel ‘teatro di realtà con la realtà’ di Kepler-452, compagnia militante bolognese di prim'ordine, può capitare di sentir risuonare una canzonetta di Battiato, come nella fabbrica dove era ambientato 'Il Capitale', o addirittura il ritornello di 'Bella ciao' dalla serie 'Casa di carta', com'è successo quest'estate sulla nave Sea Watch dove Nicola Borghesi si era imbarcato con Enrico Baraldi per preparare il nuovo ‘A place of Safety’. Ci sta che poi citazioni del genere, pur vere e non cercate, possano essere lette con significati traslati da qualcuno del pubblico.
Le canzoni fanno parte della nostra vita e dunque anche inevitabilmente del teatro? Nel caso di Vasco Rossi e di ’Siamo solo noi’ per ‘Altri libertini’ si può dire che un ritornello così famoso ed emblematico sovrasti parecchio l’intera operazione.
Certo Tondelli, anche nei tre racconti dell'esordio che sono stati riportati a teatro, si rivela scrittore di grandissima e creativa musicalità; è pur vero che abbia raccontato di una generazione 'che va a letto la mattina presto con il mal di testa', ma non lo ha fatto certo come una rockstar sul palco, bensì con una sorprendente, deliziosa e appartata voce letteraria.
Per non dire altro di relativo alle identità: 'il Blasco' sciupafemmine con la sua 'Coca-Cola-che-ti-impazzire' e l'arresto connesso, mito Ottanta per eccellenza; 'Pier' post-settantasettino che riporta intatta, 'pur imperplessato', l'infatuazione borghese per un mondo diverso e marginale, 'dei freak dei beatnik e degli hippy, delle lesbiche e dei sadomaso, degli autonomi, dei cani sciolti, dei froci, delle superchecche e dei filosofi, dei pubblicitari ed eroinomani...'
Nella stessa meravigliosa e indimenticabile invettiva del drunk-cinematografaro di ‘Autobahn’ - che parte con sentori quasi da ritornello del rigetto sociale alla Rino Gaetano, a dire il vero, più che da Vasco Rossi - in positivo, tra le categorie di 'marginali' da amare, di musicale compaiono in sequenza ‘baleromani, jazzisti e reggomani’, prima di chiudere con ‘depressi, angosciati, nostalgici, dipendenti e figli’.
E soprattutto vale quel che del successo straordinario di Vasco Rossi scrisse lo stesso Pier Vittorio Tondelli, nel suo catalogo generazionale ‘Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta’: ‘è spiegabile solo con la sincerità e la generosità del personaggio, che riuscì a interpretare la grande anima rock della provincia italiana, offrendo non tanto un sublime messaggio musicale, quanto piuttosto un atteggiamento, una storia vissuta, una mitologia’.
Per proprietà transitiva si potrebbe dire che anche Lanera si sia spesa personalmente in una vera e propria mitologia tondelliana che è anche auto-mitologia, esattamente come peraltro ha imbastito ‘una rappresentazione che nega se stessa nell’instante in cui avviene’ (scrive su ’il manifesto’ una critica teatrale militante come Maria Teresa Surianello).
E con il ritornello di Vasco Rossi è come se Licia Lanera avesse voluto sottolineare l'avvertenza in grassetto: ‘nessuna pretesa di farvi credere che questo sia Pier, un riassunto, una conferenza, un’illuminazione sullo scrittore italiano più rimpianto da Boomer e Millenial, e in fondo nemmeno che questo sia teatro tradizionalmente inteso. Siamo solo noi, appunto, solo noi’.
(1) Valga per tutti il post pubblicato il 30 ottobre da Paolo Landi, scrittore e opinionista che fu legato a Tondelli, sul suo profilo Facebook: ieri sera ho visto al Piccolo Teatro la prima di Altri Libertini, dal romanzo di Pier Vittorio Tondelli, regia di Licia Lanera. Regia interessante, che ha saputo isolare con efficacia alcuni frammenti dal fluviale racconto sui dropout della via Emilia: bella l'idea di legare le storie personali degli attori, tra cui la regista, tutti nati nel 1980 e dintorni, anno della pubblicazione del libro, a quelle dei personaggi e ricongiungerle alla fine allo scrittore, quando gli interpreti maschi indossano tutti e tre un cappotto, una sciarpa bordeaux e gli occhiali tondi come quelli di Pier Vittorio, diventando lui. Un finale emozionante, in uno spettacolo di un'ora e mezzo, recitato molto bene, ed era una performance difficile per gli attori, che dovevano restituire il flusso del linguaggio - molto arbasiniano, riascoltandolo - rigoglioso, generoso, mosso. Bravissimo alla pari degli altri Roberto Magnani che aveva interpretato Pier Vittorio nel mio racconto Pier a novembre, messo in scena da Ravenna Teatro con Alessandro Argnani che faceva me. Andate a vederlo, in scena in questi giorni a Milano: è uno spettacolo limpido, tutti credono a quello che fanno in scena ed è questa verità che è arrivata e ha scatenato gli applausi.
(2) Il critico Giacomo Giuntoli, profondo conoscitore dell'opera di Tondelli, ha dedicato un approfondimento specifico al rapporto tra lo scrittore e la musica emiliana in cui data la riscoperta dei cantautori della sua regione a diversi anni dopo il successo di 'Altri libertini'. E cita soprattutto Francesco Guccini per quanto riguarda l'importanza che Tondelli stesso gli attribuisce negli anni di formazione e Zucchero per una sorta di consonanza poetica e musicale. Alla fine Giuntoli arriva al punto da indicare 'Un soffio caldo', il brano di Guccini e Zucchero dedicato alle comuni radici sulla via Emilia, come canzone in cui è rappresentato perfettamente anche lo spirito 'tondelliano'. Nello stesso saggio Giuntoli ribadisce che, viceversa, il primo libro di Tondelli, com'è evidente alla lettura, mostra il gusto musicale radicalmente 'esterofilo' dell'autore in quel periodo. E sarà interessante magari vedere quali scelte farà Luca Guadagnino per l'annunciata versione hollywoodiana di 'Camere separate'...