Sveglia, milanesi! Sarete anche i numeri uno per qualità della vita, ma una bella lezione d'umanità ci vuole
20.11.2024
E se quella di De Luca contro il teatro di Andò non fosse poi una polemica così fuori dal mondo?
Che non sembri una provocazione: parlando seriamente dei contenuti dell’ultima intemerata alla Crozza del presidente della Regione Campania, contro ‘i cafoni arroganti’ del Teatro Mercadante rei di aver protestato con veemenza per gli improvvisi tagli ai fondi, viene da chiedersi se una qualche ragione non possa vantarla anche Vincenzo De Luca. Per carità, nessuno vuole mettere in dubbio che sia sacrosanta l’insurrezione dei Teatri Nazionali e di numerose figure di primo piano della scena italiana contro i tagli che hanno colpito il lavoro di Roberto Andò per il festival Pompeii Theatrum Mundi, proprio alla vigilia della presentazione della sesta edizione di questa manifestazione estiva, ma il fatto che la polemica sia finora caduta abbastanza nel vuoto deve pur far riflettere. Certo, il clima prefestivo da lungo ponte del 25 aprile - 1° maggio ha avuto un peso. E’ che, però, anche questa occasione sembra proprio suggerire di nuovo quanto il teatro abbia irrimediabilmente perso lo statuto pubblico, in prima battuta la sua storica funzione politica, del resto di eclissi del teatro si parla in tutta Europa da 25 anni a questa parte.
Paradossalmente, la stessa reazione istituzionale immediata, tesa a mettere in salvo il festival di Pompei 2023, subito manifestata dal sindaco di Napoli Gaetano Manfredi e dal ministro napoletano della Cultura Gennaro Sangiuliano, testimonia che oggi tutt’al più il teatro viene concepito a livello politico come un settore minore dell’intrattenimento, un mezzo ormai solo strumentale, buono per fornire una sorta di leva ulteriore al marketing turistico. E questo vale, in modo particolare, per il nuovo partito egemone Fratelli d’Italia, come si leggeva nel programma elettorale e come confermato anche con la nomina a sottosegretario del ministero con delega allo ‘spettacolo dal vivo’ di Gianmarco Mazzi, un manager che viene dalla musica leggera e che di recente ha guidato il rilancio pop-turistico dell’Arena di Verona.
Con un intervento sul ‘Corriere del Mezzogiorno’ il 23 aprile Mario Martone (che di Napoli è il regista più illustre e fedele, atteso per il 4 maggio, in chiusura di stagione, dallo stesso Teatro diretto da Andò, con il nuovo ‘Stanza con compositore, donne, strumenti musicali, ragazzo’, su testo inedito di Fabrizia Ramondino e con un primo attore di grande richiamo come Lino Musella) ha provato a rilanciare e ampliare il dibattito dopo l’intervento di De Luca, richiamando per analogia il caso dei tagli di fondi della Regione Campania al Teatro Stabile nel 2010 e sottolineando con precisione quanto non possa spettare all’ente pur principale tra i finanziatori, di entrare nel merito delle programmazioni, ma casomai di provare a incidere, alla scadenza del mandato dei direttori artistici, nel processo di nomina. Per contro, il presidente De Luca aveva già sottolineato di trovare insensato che la Regione possa indicare un solo consigliere d’amministrazione, quindi tout court di minoranza, nei vertici di un teatro che contribuisce a finanziare in misura di oltre la metà dei fondi.
Fuor d’ipocrisia, il punto caldo della polemica di De Luca, nella sua sparata di replica ad Andò con lo slogan ‘La Regione non è ricattabile’, sta tutto in una frase - ripresa più dai media locali, non a caso, meno dalle testate nazionali - che entra a gamba tesa nel merito delle scelte: ‘si fanno i loro programmi, si curano i loro clienti e i loro amici, e poi se la Regione non dà i soldi convocano una conferenza stampa…’. Così De Luca ha voluto chiaramente alludere, da populista coerente, all’impermeabile auto-referenzialità di un’élite culturale consolidata, che è riuscita a occupare, come pensano in tanti, gran parte degli spazi.
Lasciamo poi perdere quanto metta i brividi l’invocazione di un rinnovato spazio all’indirizzo politico dei teatri e di una proporzionata lottizzazione tra le istituzioni che li finanziano, ma un discorso analogo a quello di De Luca si può facilmente ascoltare nel mondo dello spettacolo e della cultura italiani un po’ ovunque, e non si riduce affatto alla solita tirata contro Roma e la Rai e Cinecittà e le terrazze. Anzi, un precedente pressoché simile, di nemmeno un anno fa, ha riguardato il Piccolo Teatro di Milano, l’istituzione fondata da Paolo Grassi con Giorgio Strehler che è anche il teatro italiano di prosa per eccellenza e un ente molto ricco rispetto al panorama generale. La regione Lombardia ha cercato in tutti i modi d’impedire la nomina a nuovo direttore del Piccolo di Claudio Longhi, regista allievo di Luca Ronconi, già numero uno dell’Emilia Romagna Teatro con risultati inappuntabili (anche sul piano dell’apertura internazionale e di una certa indipendenza rispetto alla logica dei ‘soliti noti’, com’è nel dna dello stesso ERT dai tempi di Pietro Valenti). Non riuscendo a creare consenso intorno a una diversa nomina, la Regione ha poi addirittura cercato di fare leva sullo scandalo, dopo una segnalazione della Corte dei Conti per l’eccesso di contratti di consulenza subito avviati da Longhi, che si è trovato peraltro alle prese con il primo problema di allestire un festival internazionale con una programmazione speciale per i 75 anni del Piccolo e i 100 dalla nascita di Strehler.
Terminata la bagarre sulla nomina e fallito il tentativo di far saltare per aria l’appena incaricato Longhi, sono arrivati puntuali i tagli ai fondi, che peraltro hanno colpito duro anche La Scala e altre istituzioni lombarde. In ulteriore analogia con il caso De Luca-Andò, va sottolineato come la giunta Fontana I per il Piccolo Teatro abbia provato a contrapporre una figura più ‘lombarda’ e ‘meno ideologica’, alla candidatura ‘rossa’ e ‘bolognese’ di Longhi (ma è stata più che altro una battaglia contro il sindaco di Milano Giuseppe Sala e l’ex ministro della Cultura Dario Franceschini, dietro i quali a mezza voce si diceva che, anche nel caso specifico, s’aggirasse lo spettro di Romano Prodi). L’allora assessore alla Cultura della Regione Stefano Bruno Galli, politologo universitario allievo di Miglio e vicino da sempre alla Lega, aveva individuato il candidato alternativo perfetto in Umberto Angelini, sovrintendente e direttore artistico del Teatro Grande di Brescia, nonché anima di Triennale Teatro e del festival FOG (un evento molto apprezzato per la caratura post-teatrale e internazionale, che tanti spettatori appassionati milanesi aspettano come una sana boccata d’ossigeno). In sostanza, Galli, che sapeva il fatto suo tant’è che non è stato rieletto, puntava a sparigliare mettendo in campo una figura che aveva già dato prova di saper evitare le facili strade del solito giro di attori e autori e registi, e che poteva mettere d’accordo anche una bella fetta di borghesia cult progressista e un po’ snob, tendenzialmente pure più giovane, che si riunisce intorno a Triennale.
Tornando a De Luca, se si vuole entrare nel merito del contendere, che è stato il festival Pompeii Theatrum Mundi, bisogna onestamente constatare che prevedeva, per quel che era trapelato sino ad oggi sulla prossima edizione, un nuovo spettacolo dello stesso Roberto Andò, più che pregevole e pregiato regista di cinema e teatro, oltre che direttore artistico della rassegna medesima e del Mercadante-Teatro di Napoli (dove ha aperto la stagione con il suo stesso’ Ferito a morte’ da Raffaele La Capria, che è stato poi puntualmente programmato nel solito giro dei teatri d’Italia). Guardando a volo d’uccello tra i programmi delle precedenti edizioni pompeiane, non è che non si possano trovare motivi per sostenere la ‘scorrettissima’ tesi di De Luca. Certo, a Pompei lodevolmente hanno avuto spazio anche artisti più militanti e meno mainstream, come per esempio Marco Baliani, e più che ammirevolmente sono stati ospitati persino spettacoli di una certa levatura internazionale, di rimbalzo, tanto per cambiare, dal festival d’Avignone. Ma non è che si possa proprio dire che l’estemporanea programmazione di Pompei abbia brillato per autorevolezza, innovazione e anticonformismo. Niente di grave, per carità, sempre meglio che il Festivalbar. Certo, parliamo di un contesto particolare, dove probabilmente non sarebbe indicata l’individuazione di una nicchia cult, genere Santarcangelo piuttosto che modello Transart a Bolzano, ma non è nemmeno che siano state fatte scelte così pop, stile Arena di Verona: a tutta prima pare che ci sia stata la solita sfilata di nomi noti nei teatri borghesi italiani, con qualche autore da televisione Fazio-veltroniana e, per la wokeness femminista, le solite attrice e regista ‘laureate’.
Se non si vuole continuare a fare gli ipocriti, bisogna pur ammettere che De Luca abbia toccato proprio il nervo scoperto della cosiddetta ’egemonia culturale’ dei salotti del Partito democratico e della cosiddetta sinistra Ztl, meglio di un qualunque nuovo potente che si è formato nelle sezioni missine. Certo, questo gesto sa tanto del classico fallo di frustrazione, come si suol dire nel calcio, che De Luca ha fatto alla vigilia della battaglia finale contro il suo stesso partito e la nuova segretaria Elly Schlein, non a caso scegliendo quel che aveva sottomano, ovvero il malcapitato Andò, per colpire in qualche modo il potere residuale di un notabile come Franceschini che, diversamente dallo stesso De Luca, diventato l'emblema dei ‘cacicchi e dei capistone da estirpare’, è passato tranquillamente dall’altra parte della barricata, anzi ha contribuito a erigerla dietro alla Schlein.