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Parigi nera al Pompidou fa impallidire persino i boschetti verdi di Hockney griffati Vuitton: guerra per l'arte, ultimo atto

Una statua lignea di Georg Baselitz accoglie i visitatori di ‘Corps et âmes’ alla Bourse du Commerce

 Pur sotto un titolo neutro che recita: ‘Alla Fondazione Vuitton, David Hockney sempre verde’, il giudizio finale è inequivocabile. ‘La mostra, un po’ troppo deferente (per una buona ragione: l'artista è l'unico responsabile del progetto) sembra aleggiare un po’ troppo lontano, in questi boschetti verdeggianti, dalla realtà che altri (la maggior parte) vivono in questi tempi’. 

 E’ una stroncatura in punta di penna, sì, ma radicale, quella che si può permettere, su ‘Liberation’, il critico d’arte e curatore Judicaël Lavrador, alla fine della presentazione della nuova grandiosa mostra ’25’ di David Hockney alla Fondation Louis Vuitton di Parigi - venduta come l’evento artistico di questa primavera. 

 La battutaccia sui ‘boschetti verdi’ si rifà all’introduzione, dove Lavrador nota che ‘la grande maggioranza delle 400 tele scelte per la mostra risale agli ultimi 25 anni, dove da un quadro all'altro, i motivi rimangono ossessivamente gli stessi, paesaggistici e rurali, verdi e alberati. Meli, susini, ciliegi, pianure e valli, i pascoli della Normandia e le viste del recinto, La Grande Cour, dominio dove l'artista visse, nel Pays d'Auge, dal 2019 al 2023, prima di ripartire in Inghilterra per raffigurare più o meno gli stessi alberi, le stesse distese erbose, nello stesso ambiente, campestre, senza nulla di spettacolare, né nulla di sublime’.

 ‘Mi ricordo boschetti verdi e le corse di una bambina…’: il mondo è fiamme ma che cosa ci si potrà mai aspettare da una nuova mostra a Parigi di Vuitton o di qualche altro marchio di lusso? Per vendere gli ultimi bagagli griffati ci mancava giusto un’altra evocazione, sotto mentite spoglie contemporanee, del mito turistico-artistico per eccellenza, l’impressionismo, sempre e ovunque citato (anche ’25’ di Hockney puntualmente tira in mezzo il povero Monet…).

 Aldilà dell’effetto di fuga dal presente, da un trust del luxury non si può nemmeno pretendere un discorso culturale vero e proprio sull’artista di turno da glorificare. Peggio ancora se vivo. ‘È Hockney, con il suo compagno Jean-Pierre Gonçalves de Lima, che ha scelto il corpus di ’25’. ‘Molto presente’, precisa Suzanne Pagé, la direttrice artistica della Fondation, ‘ha persino supervisionato il percorso e la strutturazione delle sale, indicando come tema portante l’eterno ritorno della primavera’.

Ha quindi fatto quello che voleva, il vecchio Hockney stesso, e il risultato - sempre secondo il critico di Libé - si vede infatti non tanto attraverso le opere considerate una per una, ma nell’atmosfera: ’25’, titolo della mostra, è esuberante ed eccentrico, nel suo effetto di massa, di riempimento, di saturazione dello spazio’.

 Cambio di scena e dall’indigestione di boschetti verdi dipinti da Hockney, perfetti dentro all’esagerato ‘bâtiment futuriste’ dell’archistar Frank Gehry piantato nel verde vero del Bois de Bologne, si torna in centro-centro a Parigi, per arrivare alla storica Bourse de Commerce ristrutturata da Tadao Ando, dove Pinault Collection presenta - in modo altrettanto astratto -, le opere sul tema del corpo di alcuni artisti collezionati dallo stesso magnate del lusso. 

 A questa nuova mostra targata Pinault, che segue quella stra-lodata della glorificazione mercantile della fu ‘Arte povera’, anche stavolta viene appiccicato un altro concetto fondamentale, l’anima, che sulla carta sarebbe una bestemmia per questa pseudo-religione consumistica totalizzante, così da proporre poi un altro titolo seducente e diretto, come ‘Corps et âmes’. 

 Per carità, belle opere e nomi di grido e da tutto il mondo, con un iconico volto nero firmato Arthur Jafa nel manifesto e un’intera stanza di colorati corpi post-Schiele al rovescio, della serie 'Avignon' di Georg Baselitz. Attenzione, però: persino gli artisti che muovono dalle più drammatiche esperienze nella realtà di oggi, come la ghanese Gideon Appah con le sue donne in spiaggia simil-Gauguin, o il libanese Ali Cherri, a cui sono state affidate le 24 vetrine del Passage, riempite con sorprendenti sculture tra divertissment e nuovo surrealismo, sembrano scelti perché in grado di parlare al presente con un linguaggio godibilissimo e per così dire ‘heasy’. 

 Del resto, gli spazi museali che Pinault ha allestito (oltre la Bourse a Parigi, Palazzo Grassi e Punta della Dogana a Venezia) si presentano ciascuno con un intrigante pezzo della Trilogia dei topolini di Ryan Gander, ‘opere animatroniche che animano discretamente ognuno dei tre spazi, filosofeggiando e attirando l’attenzione dei visitatori, invitati ad accovacciarsi per ascoltare da vicino le loro parole’ (sic!).

L'artista libanese Ali Cherri al lavoro in studio (dal sito della galleria Almine Rech)

 Si parla tanto e con ribrezzo, in queste prime settimane di presidenza Trump, delle nuove tecnocrazie americane, ma il problema della crisi della democrazia si apre ogni giorno anche sotto i nostri occhi in Europa. Basta essere appassionati frequentatori di mostre e di spettacoli per rendersi conto, per esempio, della grande guerra che si combatte da anni per l’egemonia culturale, quella vera e decisiva, che non ha niente a che vedere con le chiacchiere travestite da paroloni con cui i ministri della Cultura di Fratelli d’Italia provano a distrarci dall'imperante 'amichettismo di destra'. 

 Da anni in Europa, in Francia e in Italia tanto vistosamente, è in atto l’assalto all’arte e alla cultura, ovvero al patrimonio collettivo per eccellenza, dei grandi gruppi economico-finanziari del lusso, di concerto con i primari poli bancari, che ha portato tra l’altro alla progressiva perdita di ruolo degli attori pubblici e a subdole forme di privatizzazione lobbistiche, per esempio con lo strumento delle Fondazioni.

Queste nuove oligarchie del post-capitalismo, che vivono dell’esagerato valore aggiunto immateriale costruito intorno a certe merci, amano specchiarsi in una nuova forma di pseudo-mecenatismo proiettivo, in cui l’Arte e l’Artista giustificano esattamente la follia della leva finanziaria che riescono a sfruttare.

 L’egemonia culturale di questo post-capitalismo spietato, seppure mascherato dietro al volto buono del mecenatismo, trova ogni giorno nuove conferme. Lo si è visto persino nell’evento legato alla riapertura della Cattedrale di Notre Dame, dove per rifare tutti gli arredi sacri, l’arcivescovo di Parigi ha pensato bene di chiamare Guillaume Bardet, un designer d’interni e di oggetti considerato un raffinato neo-minimalista, che non ha caso è balzato alla ribalta mondiale, dopo gli anni Dieci del Duemila, come collaboratore di Hermès.

Sì, proprio il marchio delle borsette da Vip, che proprio in questi giorni ha superato per capitalizzazione di borsa (246 miliardi di euro) il solito gruppo leader LVHM. Per la grande H con il gallo e la tartaruga Bardet ha firmato anche una nota linea di fragranze per la casa, per poi diventare nel 2015 ‘direttore pedagogico’ della branca culturale Fondation Hermès

 In Francia, come noto, al comparto del lusso afferiscono grandi gruppi di peso internazionale, che hanno generato straordinarie ricchezze private di pochi imprenditori, e a Parigi resiste anche l’unica banca non americana delle prime per ordine d’importanza finanziaria. Se con i marchi di lusso del gruppo Kering, un Pinault si può giocare tranquillamente l'arte povera e l’anima da mettere in mostra, figurarsi se qualcuno potrà mai scandalizzarsi per la distanza siderale tra una 'modesta' Kelly (una versione Birkin Faubourg nel 2022 è stata venduta all'asta per 158mila euro!) e un inginocchiatoio da cattedrale cattolica.

 Almeno quel pauperista e populista di papa Francesco deve aver provato vergogna, ché non si è nemmeno presentato alla reinaugurazione solenne, pur di non sedersi a pregare Cristo sui Bardet stile Hermès appena lucidati.

Battute a parte, quel che conta è il gioco del Monopoli culturale che va avanti giro dopo giro, e nel cuore di Parigi le mosse più clamorose vedono l’imminente apertura della nuova Fondation Cartier firmata Jean Nouvel addirittura nel blocco del Palais Royal che si chiamava Louvre des Antiquaires: per converso, dalla parte del player pubblico, si fa notare l’annunciata chiusura pluriennale per ristrutturazione del Centre Pompidou.

 Ed è proprio qui, al Beaubourg, dove pure sono già state smontate le collezioni permanenti, che anche in questi giorni l’appassionato d’arte contemporanea può ben valutare la differenza radicale dell’impresa culturale pubblica, decisamente meno condizionata da un esagerato economicismo consumerista e dalla dittatura del marketing rispetto ai poli privati.

Dimenticati i bei boschetti verdi di Hockney, al sesto piano del Pompidou fino al 30 giugno una strepitosa e articolata ‘Paris noir’, curata da Alicia Knock con una equipe in prevalenza al femminile, offre l’inedito e intenso affresco di mezzo secolo (1950-2000) di espressioni artistiche e di lotte anticolonialiste di personalità d’origine africana, afro-americana e caraibica che hanno animato la vita culturale della capitale francese. 

 E all’anima delle esposizioni corporali e commerciali dei tesori accumulati da Pinault, per dire soltanto di un altro esempio, nella piccola Galerie 3 del primo piano ci si può entusiasmare pure per una chicca come ‘Énormément bizarre’, dove viene svelata la collezione di Jean Chatelus, storico e appassionato di arte contemporanea, decisamente fissato con la rappresentazione del corpo, la provocazione visiva e l’accumulo di oggetti rari, popolari e non occidentali.

Certo, qualcuno può preferire le ordinate e interessate vetrine del lusso al bazar stracolmo o alla soffitta di casa, ma dove con l’arte scorrano anche la vita e la realtà, è ben chiaro a tutti.   

Nel salone di Jean Chatelus - riprodotto per la mostra al Centre Pompidou - si distinguono, in fondo a sinistra, l’installazione ‘Diderot’ di Nam June Paik (1989) e, appeso, ‘Belted Through’ di Monica Bonvicini (2003). Foto di Jean Marie del Moral per Fondation Antoine de Galbert

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