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Pensi di avere già visto tutto a teatro e che il teatro non abbia più niente da dire? Prova questa medicina omeopatica australiana

Un recente ritratto dei 'Back to Back Theatre': la prima, davanti, è Sarah Mainwaring (foto di Jeff Busby)

 Una sorta d’imperativo morale impone anche agli appassionati di parlare degli australiani di ‘Back to Back Theatre’, finalmente arrivati in Italia grazie a Biennale Teatro, proprio come se si trattasse di una qualunque normale compagnia.

 E’ pur tuttavia impossibile evitare di pensare che siano le notevoli disabilità degli attori a rendere così sorprendente il loro lavoro, per esempio il classico capolavoro ‘Food Court’ che hanno presentato a Venezia.

E’ una storia decisamente brutta, che parte dal tema dell’ ossessione per il cibo per arrivare a un episodio di body-shaming che esplode in odio immotivato e criminale.

Laddove - si noti bene - i carnefici hanno loro stessi l’aspetto più evidente di quella diversità che in genere allontana e scatena repulsione e/o pietismo, che sono poi reazioni analoghe.

 Ancor più, non si può non pensare che la magia estetica di questo ‘Food Court’, risulti inevitabilmente perfetta, con la dilatazione dei tempi, l’accompagnamento dal vivo di una band di culto dell'avantgarde jazz, The Nexts, l’impiego di sobri elementi scenici e di luci essenziali, prima molto contrastate e infine opportunamente sfumate sulle scene di violenza. 

 E’ una sorta di pregevolissimo minimalismo freddo, speculare e opposto, oltre che alla drammaticità della storia rappresentata, al 'massimalismo' della diversità fisica che Back to Back porta sul palcoscenico.

Difficile non pensare che il risultato da applausi strepitosi non si debba, appunto, all’operazione stessa di cucire lo spettacolo addosso agli handicap e che l’effetto da post-teatro dell’assurdo sia esaltato dalle difficoltà d’espressione degli attori e dall’anormalità delle loro voci. 

 Per chi non li conosce e non ha avuto la fortuna di assistere alle due repliche veneziane di ‘Food Court’, bisogna prima di tutto dire di quali persone stiamo parlando.

E qui è necessario tornare del tutto al linguaggio politicamente corretto. La scheda ufficiale sul catalogo delle Biennale recita: ’la compagnia è guidata da un ensemble di attori e di attrici che si identificano come persone neuroatipiche o con disabilità cognitive’, traducendo così la definizione originale inglese di ‘intellectual disability or neurodivergent’ . 

 Ovviamente, un gruppo del genere ha segnato poi anche in modo magistralmente buffo la cerimonia di consegna dei Leoni d’Oro, che è stata definita dal critico di casa a Ca’ Giustinian, Andrea Porcheddu, ‘la più commovente della storia della Biennale Teatro’.

Gli insoliti attori australiani di Back to Back Theatre - quei quattro ritornati faticosamente sul palco per l’intervista post-premiazione, perché uno o due più ‘neurodivergent’ si sono sfilati - rispondevano alle domande con parole semplici, strascicate più o meno una ogni trenta secondi, e in mezzo c’era tutto un ‘ah’, ‘and…’, ‘ehm’, ‘yeah’. 

 Nemmeno un Beckett degli anni d’oro avrebbe saputo far di meglio. 

 Questa compagnia è nata come attività di teatro-terapia all’interno di un centro pubblico per la disabilità di Geelong-Victoria, a metà degli anni Ottanta, ma ha poi faticosamente intrapreso un percorso autonomo, di vero e proprio teatro professionale, sotto la guida, dal ’99, di Bruce Gladwin.

Gladwin, che oggi è insieme regista-autore e amministratore, aveva cominciato come performer di supporto nella fase originale di Back to Back, prima appunto di essere eletto direttore.

 Gladwin, un personaggio di cui s’è detto che l’altezza fisica non comune è davvero rappresentativa anche di quelle artistiche e morali, è ovviamente il primo che si batte per il gruppo, come si poteva notare anche solo dalla scelta di voler restare un passo indietro rispetto ai suoi attori in occasione del Leone d’Oro (‘per noi tutti è come se avessimo vinto la medaglia d’oro di nuoto alle Olimpiadi’).

 Il suo intervento post-cerimonia è stato tal quale il suo teatro, di un poetico minimalismo: ha raccontato che lo spunto per ‘Food Court’ è nato dopo una conversazione tra due attori a tavola ma poi il lavoro è stato costruito man mano in sala prove.

 Anche il contributo determinante delle musiche dal vivo dei Nexts (‘sono il canone dello spettacolo’) è arrivato così, in modo assolutamente fortuito e deduttivo: ‘in quel periodo lavorando alla preparazione dei vari spettacoli mettevamo spesso in sottofondo i brani dei Nexts, ci piacevano molto e ci aiutavano a restare sereni. Così un giorno abbiamo deciso di cercarli per chiedere loro se erano disponibili ad andare in scena con noi in nel nuovo progetto che stava nascendo’.

 Peraltro, mentre Bruce finiva di riferire l’episodio, un simpatico ragazzone con la camicia a scacchi, acquisto più recente dei Back to Back, l’ha interrotto allegramente per rivolgersi all’uditorio con la domanda retorica: ‘Do you like jazz, eh?’ subito seguita dal commento: ‘è molto-molto meglio dell’easy-pop’.   

 Una lezione di umiltà e insieme d’opportunismo è arrivata da Gladwin anche dalla risposta sulle difficoltà di percorso e le paure di sbagliare che sorgono inevitabili nel caso della gestione di un gruppo di persone fortemente disabili.

‘Il paradosso è che senza gli errori durante le prove non riusciremmo nemmeno ad andare avanti', ha detto il regista-direttore: 'sono le difficoltà da affrontare che offrono sempre dei nuovi percorsi, imprevisti, così che il lavoro si forma man mano, praticamente da sé. Potrei benissimo non esserci ormai, lo confesso, i ragazzi sanno esattamente come fare bene se si impegnano a lavorare’.

 In altre precedenti interviste Gladwin aveva dichiarato ancora: ‘Ci sono delle precise responsabilità che derivano dal lavorare donne e uomini affetti da neurodiversità e disabilità intellettiva. C'è sempre il rischio di sfruttare le persone. I nostri attori sono anche autori e vengono accreditati come tali, creano insieme contenuti e idee. Questo viene stabilito fin dall'inizio, prima ancora di iniziare a lavorare. È perciò davvero importante anche che i nostri attori siano pagati a condizioni superiori alla media'.

Non si nasconde certo Gladwin questo 'modello democratico in cui tutti gli artisti della compagnia sono responsabilizzati anche come creatori', si alquanto 'delicato, e può funzionare solo con tempo, risorse e fiducia reciproca’.

Non aggiunge quel che si nota già al primo approccio, e cioè che difficilmente potrebbe funzionare la compagnia senza un leader così pacato e duttile, capace sì di ferma autorevolezza ma anche di massima capacità d'adattamento di fronte a qualunque evenienza. 

 La poetessa e scrittrice australiana Alison Croggon, che conosce e ammira ‘Back to Back Theatre’ da molti anni, assicura che ‘l’etica della compagnia consiste interamente nel metodo di lavoro e nel processo creativo, da dove emergono le domande e gli imperativi che guidano qualsiasi cosa realizzino. Ma è molto difficile generalizzare il loro lavoro, nonostante nasca sempre con una particolare filosofia collaborativa’.

 Un altro dei ‘major works’ che la compagnia australiana vanta in repertorio, forse il più noto e premiato, è ‘Ganesh Versus the Third Reich’: la storia comincia con il dio dalla testa d’elefante Ganesh che viaggia attraverso la Germania nazista per reclamare indietro la Swastika, antico simbolo indù.

Una seconda successiva narrazione ricostruisce l’origine di questo viaggio, dopo una sorta di grande parentesi in cui gli attori stessi cominciano a sentire e manifestare al pubblico la responsabilità di aver scelto di fare i narratori di una storia del genere, interrogandosi anche sull’etica dell’appropriazione culturale.

 Sono autori e protagonisti, tra gli altri, tre dei performers che erano pure a Venezia e hanno un ruolo di primo piano nella compagnia, Simon Laherty, che ne fa parte da più di vent’anni, Sarah Mainwaring - indimenticabile vittima della violenza gratuita in ‘Food Court’ e pure protagonista del dopo-cerimonia, dove s’è impegnata per riuscire a dare diverse spiegazioni approfondite del loro lavoro - e Scott Price

 Tanto per intenderci, parliamo di artisti davvero ‘sui generis’, che sono per natura immuni dai vezzi e dai vizi di tanti teatranti di successo.

Laherty, che pure è il primo nome che compare nelle pagine ‘About/People’ del sito ufficiale, nella sua breve autobiografia ammette di avere una certa insofferenza alle riunioni e al lavoro preparatorio, anche perché il direttore artistico è un duro e pretende tanto…

E, a proposito di tutti i premi e gli applausi ricevuti, chiude confessando: ‘La cosa migliore che mi sia capitata nella vita è quando, per il compleanno dei 21 anni, mio nonno mi ha regalato tutte le sue medaglie’.

 Peccato non aver goduto della magia anche di questo capolavoro anti-nazista a Venezia, sarebbe stato un colpaccio. Speriamo che ci riesca presto almeno Umberto Angelini di Triennale Teatro, che da anni sta cercando di portare a Milano ’Back to Back Theatre’ ed era a Venezia ad applaudirli. 

 Ovunque sia stato rappresentato l’epico viaggio di questo Ganesh nella pagina più oscura del Novecento, ha sorpreso ed entusiasmato gli appassionati, vincendo premi di grande prestigio, come quello della critica al Festival di Edimburgo.

Fa testo la citazione del ‘New York Times’, che campeggia nella scheda ufficiale sul sito della compagnia: ‘Ganesh Versus the Third Reich’ tocca così nel profondo anche gli spettatori più accaniti, che pensano di aver già visto tutto, da agire di fatto come un tonico che rivitalizza il senso stesso del teatro. 

Screenshot della pagina su ‘Ganesh Versus the Third Reich’ dal sito backtobacktheatre.com

 Ma come descrivere, a questo punto, il teatro di Back to Back? Se lo era chiesta anche la Croggon, nel testo di accompagnamento che il Teatro Nazionale della Norvegia aveva commissionato alla scrittrice australiana in occasione della rappresentazione di ‘Ganesh’ a Oslo, rispondendo così.

‘È un lavoro che elimina le illusioni che ci sostengono, funziona come una sorta di pulizia psichica che genera un senso di libertà e di gioia. Alla fine, il pubblico viene lasciato di fronte a se stesso. Il voyeurismo che ci fa vergognare. La crudeltà che deriva dall'odio di sé. I conflitti che ci mettono a nudo. Il fascismo che semina la tirannia dei benpensanti. La nostra insostenibile fragilità. La nostra mortalità’. 

 Che non ci siano moralismi e che il giudizio sia lasciato al pubblico è stato molto chiaro a tutti anche dopo le rappresentazioni veneziane di ‘Food Court’. Alla fine si è rivelato effettivamente quel che i redattori del catalogo della Biennale ‘Niger et Albus’ s’erano impancati ad annunciare come ‘una near-death experience in una periferia delle meraviglie dove avviene una piccola fatalità della dignità’. Sic.

 Ora tirate un attimo il fiato perché c'è un'ultima riflessione da fare, nel modo più semplice possibile, e riguarda la fortunata combinazione di 'Food Court' con ‘Medea’s Children’ di Milo Rau, nelle due giornate finali del Festival Internazionale del Teatro 2024 e dell’intero quadriennio da direttori di Stefano Ricci e Gianni Forte.

Il calendario della rassegna ha garantito un raddoppio alquanto singolare non solo per lo standard d'alto livello internazionale, ma perché si trattava di tragedie nerissime affidate a cast anomali e anormali, con i disabili neuro-diversi così eccezionali di Geelong seguiti a ruota dai bambini ancora così belli e innocenti di Gent. 

 Due spettacoli peraltro difformi sul piano del linguaggio teatrale, ma entrambi impossibili da dimenticare per gli appassionati di emozioni, ovvero, parlando del bene nel male, per il livello straordinario delle costruzioni artistiche. 

 Anche da un punto di vista razionale ci sarà tanto da elaborare, a proposito del binomio di ‘Food Court’ con ‘Medea’s Children’, per il fortunato spettatore che ha potuto vederli insieme alla Biennale di Venezia. 

 E’ come se uno avesse ingoiato due interi blister di micro-pastiglie omeopatiche, uno dopo l’altro, prescritte da due medici che stanno a un capo e all’altro del mondo, non solo geograficamente.

 Il primo, che sembra una reincarnazione post-moderna della leggenda australiana del Mateship - amicizia, lealtà, uguaglianza - persegue con un inguaribile ottimismo l’obiettivo umanistico di provare a farci superare tutte le fobie e gli egoismi. Crede fermamente che l’Ignatia amara del teatro sia in qualche modo efficace, prima di tutto per gli stessi che vanno in scena a dimostrare quanto nessuna vita possa considerarsi ‘non degna di essere vissuta’.

 Il secondo, un erede della civiltà ‘Totius Europae’ dei monasteri, è un professore rivoluzionario che si richiama al materialismo storico e considera cambiare il mondo lo scopo del teatro. Ma forse oggi è arrivato al pessimismo radicale e a questo punto non bada nemmeno se le dosi di Ignatia amara possano produrre l’effetto paradosso, tanto ormai nel suo intimo pensa addirittura che sia pur sempre meglio salvare il pianeta che l’umanità (come fa dire Rau alla sua Medea’s child disperata per l’uccisione del pur tanto simbolico drago).

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