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Qualcuno ha sentito quegli strani rumori arrivare da Civitella Benazzone? Una questione di eredità e tradimento

Stefano Massini (foto di Marco Borrelli)

 A Milano è sbocciata in anticipo la primavera del teatro e le code degli spettatori cominciano a farsi notare più del solito persino in Largo Greppi, dove pure lo spazio non manca, di fronte al grande santuario di ‘sacralità laica’ firmato dall’architetto Marco Zanuso e intitolato a Giorgio Strehler.

Certo non bastano i celebri ‘portici a doppia fila di pilastri binati in mattoni a vista’, davanti all’ingresso del teatro da un migliaio di posti, per contenere la folla che si accalca dal 20 febbraio per vedere ‘La locandiera’ con la stellare Mirandolina Sonia Bergamasco

 E non si trova quasi più uno strapuntino per ‘L’albergo dei poveri’ di Gor’kij rilanciato da Massimo Popolizio, che pure dal 7 marzo se la dovrà vedere con un attesissimo ‘Aspettando Godot’ di Theodoros Terzopoulos al Grassi.

 Antonio Latella si era appena lamentato, in un’intervista, del sistema teatrale italiano che punta troppo a macinare incassi al botteghino, in ottemperanza alle assurde regole ministeriali, con una spinta commerciale che contribuisce al degrado culturale.

 Come già notato, forse in giro ci sono due Latella: l’altro è il regista che, invece di sottrarsi al vizio economicista, punta sul facile e mette una vera e propria vedette in camicia da uomo per fare ‘il mattatore’ della nuova versione della commedia più pop di Goldoni.

 A dire il vero, l’Io diviso di Latella è anche un caso nobile: bilingue (fa il regista di primo piano sia in Italia sia in Germania), ha cominciato come attore con i due maestri da cui riconosce di aver appreso le lezioni di regia, Massimo Castri e Luca Ronconi. Stavolta, dichiara Latella, spera di essere riuscito a rendere omaggio allo stile e alle stesse riproposizioni goldoniane di Castri, ovvero a quella componente umanista e pedagogica da teatro popolare d’arte, che nasce dopo un lavoro accurato sui testi.

 Del resto, che anche Latella voglia dimenticarsi un attimo il lato Ronconi, pur così ben coltivato per anni, è un po’ inevitabile oggi, ché tutti vogliono spettacoli brevi e facili, come direbbe la parte critica del suo Io diviso.

In effetti, nessuno forse può più permettersi di seguire l’impervio paradosso programmatico di Ronconi, riassumibile in una frase: ‘se il teatro è un’arte minoritaria, che lo diventi sino in fondo, in maniera consapevole, e diventi, addirittura, ferocemente elitario’ (cit. dal decano della critica teatrale Enrico Fiore, che fu interlocutore rispettato e amico del Maestro scomparso nel 2015).

 Persino Popolizio, che è stato l’attore per eccellenza del teatro di Ronconi, e ha sempre detto che non si sarebbe mai sognato di misurarsi con la regia quando era ancora vivo il suo mentore-padrone, evita accuratamente, per adesso, di ripercorrerne le orme. Casomai prova a sfidare idealmente lo Strehler del ’47, ché va bene sia per la distanza temporale sia per quanto riguarda lo stile di massima attenzione al pubblico.

 E qui verrebbe voglia di fare un piccolo accenno a quel che appare una sorta di deriva anti-intellettualistica e popolare dei vari eredi di Ronconi.

Alcuni sono saldamente al centro della scena italiana e potrebbero pur sempre sorprendere gli appassionati con qualche nuova cavata d’ingegno, come fu lo storico ‘Orlando Furioso’ del ’69 a Spoleto, magari con altre indimenticabili sfide alla complessità, tipo la storica ‘Orestea’ integrale del ’72 o ‘Gli ultimi giorni dell’umanità’ a Torino nel ’90. 

 Invece no, niente da fare. Il caso limite è Stefano Massini, consacratosi come autore con l’ultimo spettacolo ronconiano ‘Lehman Trilogy’: ha ribaltato personalmente il paradosso elitario del Maestro in presenzialismo mediatico, e a inizio febbraio si è presentato in tv persino all’ultimo Festival di Sanremo. 

 Un altro erede dichiarato di Ronconi, Valter Malosti, è appena tornato lui stesso a gigioneggiare in palcoscenico, con ‘Antonio e Cleopatra’, e il primo anno della sua direzione in Emilia-Romagna, in quell’ERT che ha pur sempre mantenuto anche un certo grado di proposta culturale, ha addirittura firmato un bel musical di cassetta su David Bowie con la rockstar Edoardo Agnelli come protagonista.

 Il più che rispettabile Professor Direttore del Piccolo Teatro Claudio Longhi, qualche anno fa come regista aveva rispolverato uno dei raffinati e ben poco frequentati lavori teatrali di Elias Canetti, 'La commedia della vanità', con un altro attore ronconiano doc, Fausto Russo Alesi. E poco prima aveva riproposto a teatro, quasi mezzo secolo dopo, il celebre film militante di Elio Petri ‘La classe operaia va in paradiso’.

Del resto, che ci si vuol mai aspettare da uno che è stato aiuto e persino co-regista del Ronconi più ‘ferocemente elitario’ e ormai quasi post-comunista nostalgico?

 Per la prima regia al suo stesso Piccolo, però, dalla Mitteleuropa più intellettuale d’inizio Novecento Longhi è finito addirittura nel melò pop-camp sudamericano, trasformando il suo fu-nuovo-Volontè Lino Guanciale in Fata queer che per amore scopre la rivolta contro la dittatura di Pinochet in Cile.

Un sacco di tango della nostalgia, certo, ma anche uno spettacolo delle solite buone intenzioni politiche e civili, con una bella forma problematica, un’estrazione letteraria non banale (da ‘Ho paura torero’ di Pedro Lemebel), la sala piena e il prevedibile esagerato consenso mediatico…

 Paccato poi che questo Longhi meno cult e più box office rischi così di confondersi con le troppe proposte che occupano le sale con un 'teatro rassicurante e spesso ornamentale, attestato giusto sulla retorica della bellezza’ (parole di un giovane autore impegnato). 

 E non è che Longhi può consolarsi andando a rileggere che cosa scriveva, lapidariamente, il suo punto di riferimento universitario Claudio Meldolesi, critico e storico di rango (nei ‘Fondamenti del teatro italiano’, 1984), sugli alti e bassi dello stesso Ronconi: ‘un regista capace di realizzarsi in prove memorabili, come di sprecarsi’. 

 Oggi, ha spiegato lo stesso Longhi in una recente conferenza, non ci sono più Maestri e non ha nemmeno più senso la figura storica del Regista, che forse era davvero ‘il granchio che si è assestato sulle spalle del teatro’, come sosteneva polemicamente Bernard-Marie Koltès, che ne profetizzava la sparizione trent’anni fa o giù di lì.    

 Beh, tra Massini che canta a Sanremo, Malosti primadonna post-Bowie, Latella che sceglie l’ascendenza Castri del suo Io diviso, Popolizio che fa l’emulo di Strehler e Longhi popcamp che teorizza pure la fine del Regista-granchio…

 Non c’è da stupirsi se, come si suol dire, qualcuno a volte, di notte, sente arrivare l’eco lontana di strani rumori dal cimitero del borgo di Civitella Benazzone (Perugia), e sembra proprio che provengano dall’elegante cappella Ronconi, disegnata da Margherita Palli e Italo Rota.

Altro che ‘parce sepulto’ Luca.

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