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Carolina e Claudia si scottano, anche loro, a forza di ripetere: 'Sarah Kane è viva e lotta insieme a noi'

Carolina Cametti e Claudia Salvatore in 'Burn Skin' (foto Laila Pozzo)

 In questi giorni all’Elfo Puccini di Milano il pubblico non accorre soltanto per entrare in sala Shakespeare a vedere il titolo forte della casa, un ‘Re Lear’ in perfetto stile post-punk e antiborghese come da Bruni e De Capitani ci si aspetta.

Un costante flusso di spettatori, piccolo ma prezioso, si indirizza sulle sale minori, alla ricerca di proposte e di personaggi nuovi.

Parliamo magari di una ventina di persone a sera, come si poteva notare alla rappresentazione quasi festiva, il 2 novembre, di ‘Blue Max’, singolare monologo al maschile di e con Carolina Cametti.

 Dal 9 novembre questa performer-autrice ormai di casa all’Elfo stesso, è di nuovo in scena con un altro spettacolo, ‘Burn Skin’, scritto e interpretato con Claudia Salvatore, poeta-attrice-blogger che con la Cametti condivide non solo la scena in quest’occasione, ma un po’ anche l’impostazione e l’approccio al teatro.

 Lo schema di ‘Burn Skin’ è semplice, nel senso del titolo 'pelle bruciata' : ci sono due donne una di fronte all’altra, e in flusso disordinato d’autocoscienza si confrontano su come la vita possa averle travolte e appunto scottate (1). 

 E’ stato notato dopo la prima rappresentazione: ‘Quando si parla di urgenza a teatro: ecco. C’è una sincerità evidente in questo lavoro, nonostante la mancanza di un occhio esterno in grado di ordinare i materiali, ma a dispetto della grammatica anarchica (e dunque di una scrittura scenica debordante) c’è un’insondabile vitalità in questi corpi che chiedono di essere ascoltati'. (Andrea Pocosgnich)

 In ‘Blue Max’, Cometti era nei panni di un ragazzo alla deriva, metà barbone metà ‘hikikomori’, che se ne sta chiuso in una sorta di baracca a delirare.

Anche questo monologo lavora fortemente sull’emotività e vuole provocare nel profondo il pubblico, ma oggi è arduo già solo fare breccia nella scorza sull’anima che in questo nostro occidente ricco e distratto si rinforza ogni giorno dentro ciascuno.

Forse pure l’eccesso di teatralizzazione non giova al risulato emotivo, con il gioco delle luci e il suono (per esempio i raddoppi artificiali della voce), pur in un impianto povero.

Ma l’originale stile di scrittura, crudo eppure ridondante anche grazie all'impiego ripetuto di rime, quasi da rapper, nonché la bravura della performer, si sono meritati gli applausi convinti.  

’Burn Skin’, che è in cartellone fino al 19 novembre, è un'occasione da cogliere non solo per vedere finalmente una novità, ma in fondo anche per fare i conti con un mito maledetto del teatro contemporaneo, ancor oggi frequentato sui palcoscenici di ricerca, quello di Sarah Kane.

 Cametti si era misurata molto intensamente addirittura con l’ultimo ‘4:48 Psychosis’ della Kane, il culmine autobiografico di una parabola di eccessi scenici e verbali.

Anche Claudia Salvatore aveva tratto la sua perfomance ‘Interruzioni volontarie’ dall'opera della stessa autrice inglese, nata nel 1971 e scomparsa nel 1999.

 Questo genere di ‘extreme stream of consciousness’, per dirla all’inglese, è esploso sulla scena europea ormai da una ventina d’anni, e sempre parlando all’inglese oggi si può dire che Sarah Kane sia stata sì un’autrice di rottura, appunto da flussi di coscienza estremi, ma anche inserita perfettamente in una tradizione che arriva da lontano.

Arriva esattamente dalla 'Billy's violence', per rubare il titolo di Need company (Jan Lawers, del resto, è un maestro di quel teatro post-drammatico, filone a cui è stata poi assimilata anche Sarah Kane). In effetti nella sua opera la Kane cita esplicitamente più volte Shakespeare, come anche il poeta della 'Terra desolata' Thomas S. Eliot.

Per non dire dell'eco di fondo dall'Irlanda di John Millington Synge, piuttosto che dall'opera di Samuel Beckett. 

Anche per queste ascendenze, poi, autori contemporanei più canonizzati, come Harold Pinter o Edward Bond, hanno contribuito a far riconoscere il valore della Kane, che fu in prima battuta osteggiata o guardata con diffidenza dal sistema culturale.

Bisogna anche sottolineare che un giovane di oggi, millennial o z che sia, può guardare a Sarah Kane aldilà del mito in nero da Club dei 27, le rockstar morte entro i 30 anni, come a una figura in fondo emblematica dell'impasse di una generazione di mezzo, la cosiddetta X (post-boomers e pre-nativi digitali).

Ricordare i quarti di nobiltà e il contesto storico di Sarah Kane, non suoni come una provocazione per ridimensionarne l’anticonformismo, e nemmeno come un’osservazione critica nei confronti di chi vuole seguire oggi le sue orme in Italia: è soltanto un elemento fondamentale di cui tenere conto, la tradizione con cui si deve giocoforza misurare chi fa teatro.

 ‘Burn skin’ è stato presentato nel ’22 a Fortezza Est di Roma, Municipio V, Tor Pignattara, un nuovo spazio che si autodefinisce ‘Teatro di performance d’arte-Libreria-Laboratori artistici-Biblioteca Condivisa’ e da due analoghe associazioni culturali e sociali milanesi, Campo Teatrale e Mare Culturale Urbano: questo per dire che ci sono ancora realtà che si preoccupano di sostenere in qualche modo il rinnovamento della scena.

 Anche l’Elfo vuol stare in questa difficile partita. Del resto, ha voluto ribattezzarsi come ‘teatro d'arte contemporanea’ ormai nel marzo 2010, quando ha potuto prendere sede in corso Buenos Aires, nel grande spazio che fu del novecentesco Teatro Puccini.

  La ristrutturazione in tre sale di diversa capienza ha consentito di poter declinare meglio l’aggettivo temporale della vocazione artistica, e lo segnalano persino i nomi degli spazi stessi, i due più raccolti dedicati a Fassbinder e Pina Bausch.

Così in questi giorni, proprio sotto a ‘Burn Skin’, in cartellone si fa notare un’altra novità, ‘Mulinobianco, back to the green future’ di Babilonia Teatri, con due bambini in scena che fanno la predica agli adulti…

Ritratto di Sarah Kane da Wikipedia

(1) ‘Burn skin’ di Carolina Cametti e Claudia Salvatore (da campoteatrale.it)

Siamo grandi abbastanza, adulte abbastanza, indipendenti abbastanza, o non lo saremo mai abbastanza? La madre genera la figlia, lo stesso sangue, eppure la pelle ha scritta addosso un’alta storia, dichiara la propria autonomia, una direzione diversa, pretende di non essere un prolungamento, un’estensione, un possesso per diritto di nascita , la pelle scotta.

Una scena ibrida, ventre materno, culla, stanza privata, appartamenti confinanti, fino ad un altrove, un fuori che trascina con se un conflitto eterno irrisolvibile.

Madri che non sanno lasciare andare, per un’inconsapevole paura della separazione dal proprio “feto”, un amore soffocante, o un amore assente; in ogni caso un amore difficile, impacciato, maldestro.
Figlie che si dibattono tra la dipendenza e l’autodeterminazione, tra il rifiuto e il bisogno intrinseco di accettazione. Una vita che per natura si oppone, si ribella all’interferenza, ma nello stesso tempo cerca costantemente di ottenere approvazione. Un legame tanto solido quanto pericoloso, che rischia di segnare le altre relazioni con un cedimento, una fuga o una dipendenza affettiva tormentata.

Due mondi a contatto che cercano di amarsi, oltre il ricatto, oltre il senso di colpa dati da questa sospensione emotiva. Una madre, una figlia, due femminilità, due donne, due generazioni a confronto. Una ricerca continua di un equilibrio, di una comprensione, di un dialogo.

Riusciremo mai a capirci?


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