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Questa costruzione della città di K. a immagine e somiglianza di Ágota Kristóf

Federica Fracassi nei panni della scrittrice di 'Trilogia della città di K.' (foto Masiar Pasquali)

 No, Geronimo La Russa non si è visto, a meno che non fosse in incognita. Il nuovo consiglio d’amministrazione del Piccolo Teatro era però rappresentato al massimo livello, la sera di giovedì 23 novembre nel Teatro Studio Melato per il debutto ufficiale di ‘Trilogia della città di K.’, una storia cupa di mostruosità umane dentro gli orrori della Storia.

 In platea prima fila, ecco il nuovo presidente Piergaetano Marchetti, seduto in posizione semi-centrale ma un po’ a sinistra, come da riflesso politico (è stato nominato dal sindaco Beppe Sala), con signora accanto. 

 Notaio e personaggio di primo piano nella città, uomo di cultura raffinata e di delicati snodi del potere, attivissimo seppure ultra80enne, ha ammirevolmente resistito per gli interi 190 minuti di una rappresentazione tutt’altro che semplice e calda, con un allestimento multimediale a incastri firmato Fanny&Alexander che fa da perfetto specchio al complesso groviglio del celebre romanzo di Ágota Kristóf

 Accanto alla signora Marchetti, seguiva il varo della più impervia e intellettuale delle sue nuove produzioni, il direttore Claudio Longhi, in grigio scuro informale con sciarpa blu Savoia indossata a mo’ di stola.

Da cronista dell’armocromia longhiana, si può notare che lo stesso ‘zendalo azzurro’ era stato già sfoggiato, per esempio, a una felice conferenza sulla storia del teatro, tenuta di recente in una biblioteca pubblica vicino alla stazione di Lambrate. Sarebbe un tocco distintivo da ufficiale, se la portasse ad armacollo, ma in questo caso suona come il segno del professore.  

 Che poi non sta sempre in cattedra, anche Longhi, anzi: alla fine del grande gioco tra verità e finzione, tra azione e rifrazione, tra realtà e narrazione, a qualcuno è sembrato che si fermasse subito ad ascoltare la lezione di un Antonio Latella che forse non era proprio lui. 

 Merita un’altra piccola annotazione a margine anche il Latella delle nostre visioni: forse per via del volto sbarbato di fresco e segnato da una montatura degli occhiali nera squadrata e spessa, tanto up to date, sembra un po’ un ‘altro Latella’ rispetto all’intellettuale che consiglia al pubblico di leggere ‘Infinite Jest’ di Foster Wallace con l’aria un po’ da guru fassbinderiano, in regolare giubbotto di cuoio e t-shirt bianca, barba casualmente incolta e occhiale più Ottanta.

 E’ un'associazione di persone e di pensieri che vengono spontanei almeno a chi ricorda che Latella si era seduto proprio lì, nello stesso posto, al Melato, in fila 3 verso il fondo sinistro della platea, il 27 giugno del ’21, per accompagnare affettuosamente in presenza l’ultima rappresentazione integrale, al primo giro, del suo straordinario ‘Hamlet’ d’epoca covid, 6 ore e 35 minuti filate. 

 Ci vorrebbero altri mezzi, più sofisticati anche dei microfoni degli apparati audiovideo che il Piccolo ha messo a disposizione di questa ’Trilogia della città di K.’, per captare la recensione volante che il simil-Latella alla fine espone a Longhi, dopo aver seguito con esemplare attenzione e partecipazione questa prima, applaudendo con convinzione.

Che cosa sia davvero piaciuto al nostro vero/immaginario gemello/non gemello di Latella, che di talenti se ne intende, se e che cosa abbia consigliato magari d’aggiustare, non si riesce nemmeno a ipotizzarlo. Giudicare dalle espressioni non è possibile. Con Longhi si sa, non vale nemmeno la pena di provarci, ma ora sembra diventato un vero grande imperscrutabile anche Latella, il nuovo Latella (il post-Latella verrebbe da dire da antipatizzanti militanti del ‘teatrone borghesone con attoroni’). 

 Faranno tesoro di tutti i consigli, i Fanny&Alexander, c’è da giurarci, e soprattutto delle reazioni del pubblico vero, che affluirà da stasera e nel week-end. Alla ‘bottega d’arte’ ravennate fondata nei primi anni Novanta si sono accollati l’ardua impresa, con Chiara Lagani per la drammaturgia e Luigi De Angelis per regia, scene, luci e video, di portare a teatro un romanzo nero e cult scritto in francese alla fine degli anni Ottanta (prima edizione italiana, Einaudi 1998), da una ungherese fuggita in Svizzera.

 E di portare non solo la Kristof amarissima e disincantata qui dentro, nel Piccolo Studio, la sala chic del ‘teatro d’arte per tutti’ fondato da Paolo Grassi e plasmato da Giorgio Strehler, ma uno stile diverso rispetto alla tradizione di casa, con un linguaggio teatrale decostruito e ‘decostruzionista’, volendo più freddo e intellettuale, coerente con l’originale letterario.

Per onor di cronaca, la prima ‘Ágotista’ del progetto, come da nomi in cartellone, è la protagonista, Federica Fracassi, a cui si deve l’idea stessa e la prova sacrificio di un’interpretazione-imitazione della scrittrice ungherese.

Chiara Lagani e Luigi De Angelis (Fanny&Alexander) ritratti dietro le quinte del Piccolo Teatro con Federica Fracassi da Masiar Pasquali

 De Angelis, che ricorda ancora bene la vecchia Milano Ottanta, delle bocciofile e degli Strippoli, ha raccontato alla conferenza stampa di presentazione di questo ‘Trilogia della città di K.’ con quale emozione sia entrato, due-tre mesi fa, a lavorare al Melato, quasi trentacinque anni dopo la prima volta. Quando era poco più che un ragazzo appassionato d’arte, e forse nemmeno sognava di fare teatro, venne a vedere qui al Teatro Studio i famosi ‘Frammenti di Faust’, di e con Strehler. 

 Ma, attenzione, non è che De Angelis ricordi di aver voluto assistere alla lezione sull’esistenza umana che voleva impartire il Maestro nei panni di Faust, e nemmeno alla cerimonia di addio alle scene di Strehler interprete, una sorta di prima auto-monumentalizzazione del regista mito del teatro italiano…  

 Eh no, del ‘Faust frammenti’ che fu strehleriano, De Angelis rievoca con l’incanto che è ancor vivo quella spirale di Josef Svoboda appesa al soffitto come esoterica scenografia, ‘350 metri di seta di 3 metri di larghezza, montati in una figura discendente leggera ed equilibrata, armonica e generatrice di ritmo’, costruita in modo che ‘non pendesse né facesse pieghe, non fosse ricucita ma incollata, tenuta insieme con precisione, perché ‘dentro conteneva un segreto matematico’’ (sono parole di Franco Quadri).

 Così, dall’evocazione di Svoboda viene da riflettere che forse anche questa trasposizione del romanzo della Kristof merita di essere vista per la costruzione teatrale, prima di tutto e aldilà di tutto, persino dell’effetto respingente che questa cruda narrazione di destini terribili e di pessimismi radicali suscita sempre in alcuni lettori. La famiglia è un inferno, i nazisti assassini depravati, il comunismo sovietico spietato e forse la libera società industriale occidentale anche peggio...    

 Alla fine sembra che gli spettatori escano tutti un po’ storditi e inquietati: è una proposta difficile da mandar giù al volo ma può lavorare dentro per anni, allo stesso modo eppure anche diversamente dall’originale, ovvero il romanzo ‘Trilogia della città di K.’. 

 Salvo che non siate come quel giovane antagonista che, appena fuori dal Teatro Studio, defluendo da solo tra i capannelli in cui si parlottava a bassa voce, s’è precipitato ad avvertire quasi urlando al telefono i compagni del circolo Michel Onfray: ‘è uno spettacolo troooppo capitalistico…’ 

 Già, non è il teatro povero, questo, decisamente no. 

P.S. La 'Trilogia della città di K.' è in scena a Milano fino al 21 dicembre e merita di essere affrontata, con serietà, come da esempio di spettatore eccellente, o somigliante, di cui sopra.

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