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Regia, regia, per piccina che tu sia…Breve e curiosa storia di una parola e di una funzione controverse, dal Teatro d’Arte di Mosca ai Maestri di ieri e di oggi

Sonia Bergamasco interpreta Mirandolina per 'La Locandiera' di Antonio Latella (foto Gianluca Pantaleo)

 Tante sfide impossibili ai grandi di ieri che entrano insieme nei cartelloni riportano a galla, inevitabilmente, il tema della regia. Basti citare le due più elettriche. Antonio Latella con una Mirandolina più realistica e donna forte si misura, di fatto, con Luchino Visconti, il primo che fece così ‘La locandiera’, nel ’52 (viene ritenuta il capolavoro teatrale del regista più noto per i film) .

Massimo Popolizio rifà ‘L’albergo dei poveri’ di Giorgio Strehler 1947 (spettacolo peraltro passato ai libri di storia come non particolarmente memorabile, eccezion fatta per la scena di Gianni Ratto) ma soprattutto con il mito del primo allestimento, sul testo originale 'Bassifondi' di Maksim Gor'kji, del guru del rinnovamento teatrale del Novecento e padre di tutti i registi, Kostantin Sergeevic Stanislavskji.

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CONTRO IMPRESARI E FUNZIONARI

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 Il famoso secondo allestimento de ‘Il Gabbiano’ di Anton Čechov, prima ancora del nuovo Gor’kij, segnò la vera e propria fondazione del teatro artistico di regia nel Novecento: lo straordinario laboratorio plasmato da Stanislaviskji con Vladimir Nemirovič-Dančenko a Mosca, denominato appunto Teatro d’Arte, nacque come rivolta dei talenti contro i funzionari e gli impresari che portano il teatro al degrado, a partire proprio dall’interpretazione e dalla recitazione degli attori.  

 Su questo tema della regia artistica nel teatro ci si accapiglia alla grande, da ormai più di un secolo. L’Italia, poi, si potrebbe aggiudicare il campionato mondiale degli scontri a tema, ogni generazione di registi che si è succeduta negli ultimi 80/90 anni, ha avuto maestri riconosciuti e insieme puntualmente contestati.

Per stare solo ai sopracitati Visconti e Strehler, al culmine della carriera sono stati anche indicati come punto di riferimento da superare, se non da abbattere.

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INTENDI 'APPALTO' O 'CORAGO'?

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 Uno strano destino è inscritto nella parola stessa regista. Gli studiosi di etimologia spiegano che è nata prima la regia, ovviamente, del regista. Solo che, dal francese ‘régir’ (reggere, amministrare), all’inizio dell’Ottocento ‘regia’ arrivò in italiano per indicare letteralmente un appalto, funzione d’uso che stava già dal XVI secolo nell'originale d'Oltralpe ‘régie’. 

 Il vero e proprio ‘regista’ come lo intendiamo oggi arriva con la ventata autarchica fascista, nel 1932, quando il grande italianista Bruno Migliorini suggerì questa parola al posto del francese ‘regisseur’, che nel frattempo aveva preso piede in Europa - e si usa ancora, per esempio, nel teatro tedesco.

Nonostante l’autorevolezza del suggeritore, il termine regista venne contrastato ‘invano, per poco, dal dottissimo coràgo’, come ricordano bene gli etimologisti Cortellazzo e Zolli nel loro grandioso dizionario Zanichelli. Il termine precedente, ma poco resistente, nasce con il teatro barocco e allude più che altro alla funzione di guida del coro (il 'chorodidaskalos' greco). 

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E  CROCE INSORSE: NO, IL ’TU’ NO

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 In genere, anche dopo l'avvento della parola ‘regista’, parte delle funzioni che verranno poi attribuite alla regia, e che non figuravano nemmeno in locandina, era svolte di fatto dal più famoso degli attori, detto ‘il capocomico’.

Eppure, dagli storici della lingua, questa di 'regista' è unanimemente considerata una delle migliori sostituzioni di parole imposte dal regime di Mussolini e sempre all’iniziativa dello stesso gruppo di italianisti neo-puristi di Migliorini, meno xenofobi e ottusi di altri colleghi, si deve il passaggio dal francese ‘chaffeur’, ormai dimenticato, al vincente ‘autista’. 

 Alcuni forestierismi in uso non vennero proprio toccati (da film a sport, tennis, camion, tram ecc.), altri cominciarono a convivere con i precedenti senza riuscire a soppiantarli del tutto: ‘chalet’ resistette accanto a ‘villetta’, ‘garage’ a ‘rimessa’.

 Come ricorda Claudio Marazzini nel ‘Profilo storico della lingua italiana’ (ed.il Mulino, 1994) ci fu anche il caso quasi grottesco della spinta del regime a togliere di mezzo il ‘lei’ e l’altro allocutivo equivalente 'voi', più in uso al Sud, per passare al ‘tu’ considerato più romano.

Apriti cielo! No, il ‘tu’ no: a benedire la rivolta culturale fu il filosofo Benedetto Croce, napoletano e abituato a usare tanto il ‘voi’, per esempio rivolgendosi all’interlocutore di una lettera epistolare: dopo la proposta fascista del 'tu', Croce abbandonò il suo caro 'voi' per utilizzare polemicamente sempre e soltanto il ‘lei’.

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 SONO TUTTI MORTI I MAESTRI?

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 La regia e il suo destino sono stati anche al centro del ciclo di incontri ‘Teatro dietro l’angolo’ che il Piccolo sta lodevolmente organizzando nei vari quartieri a Milano. A un meeting nella biblioteca di Città Studi, il direttore Claudio Longhi ha dedicato al tema un lungo intervento, di quasi due ore.

 Forse anche per una sorta di crisi d’astinenza da lezioni universitarie (è in aspettativa dal Dams di Bologna, dove ha la cattedra di Storia della regia e Istituzioni di regia), Longhi ha passato in rassegna per sommi capi le controversie del mestiere che lui stesso pratica da una trentina d’anni. 

 Alla fine della dotta e articolata conferenza, ha ricordato che gli ultimi tre grandi maestri della regia sono scomparsi tutti e tre nel giro di pochi anni, uno dopo l'altro.

Per sintetizzare alla Woody Allen: ‘Strehler è morto, Massimo Castri è morto, Ronconi è morto e…’ - sorpresa! - invece di aggiungere il prevedibile ‘e anch’io non mi sento tanto bene’, come si potrebbe pensare dopo ‘Ho paura torero’, Longhi ha dato il seguito per sottinteso.

 Ha infatti sostenuto che ormai, guardando proprio agli sviluppi che lui stesso da direttore ha portato al Piccolo, le regie sono state  ridefinite e sono tutte diverse e anomale rispetto al canone di ieri, fatte da autori-drammaturghi (Liv Ferracchiati, Davide Carnevali), o da menti collettive (Sotterraneo, lacadadargilla).  

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IL VENERATO ROMEO E ALTRI NOMI

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 Il discorso dei registi-maestri va visto comunque nel contesto del mondo globalizzato, più che mai dopo la rivoluzione degli anni Settanta. E a tal proposito il dibattito non si può certo esaurire con un’altra battuta tipo: ‘anche Peter Brook’ è morto’.

Si potrebbero fare tanti nomi di nuovi punti di riferimento importanti, considerando gli sviluppi del cosiddetto post-drammatico e/o del post-teatro che ne è seguito per opera di collettivi e di compagnie, piuttosto che la contaminazione totale con la danza contemporanea (anche se Longhi notoriamente non ama e non segue tutto quello che sa di performativo). 

 Allargando così lo sguardo, l’elenco dei maestri riconosciuti è abbastanza facile, ci sono persino italiani viventi, a cominciare da Romeo Castellucci, per dire di uno considerato guru in tutt'Europa.

Lo stesso Latella lavora a metà tempo in Germania, ed è riverito regista tanto quanto in Italia, dove peraltro brillano già nuovi talenti, Leonardo Lidi e altri, che si richiamano a lui.

Eugenio Barba è vispo e operativo, come lo sono i ‘grandi vecchi’ Ariane Mnouchkine piuttosto che Bob Wilson, per parlare dei rinnovatori che furono battezzati proprio da una ben nota Biennale di Venezia di Ronconi nel '75.

Restando agli italiani, tra quelli che meglio hanno saputo assorbire la lezione del ‘teatro povero’ e che sanno emozionare incantando gli spettatori appassionati, come si fa a non considerare il nome di Alessandro Serra?

E si potrebbe continuare l’elenco dei registi-maestri con l’immenso Lev Dodin, purtroppo alle prese con il regime di Putin, o dei riformatori con l’attivissimo post-brechtiano Milo Rau

 Se ci allarga poi al teatro-danza, ci vuole un cocktail a parte, basta soltanto aver visto la prima prova con ‘Libertè Cathedrale’ del successore di Pina Baush a Wuppertal, Bruno Charmatz

L'interno del Piccolo Teatro Strehler dal palcoscenico (foto Masiar Pasquali)
La citazione

 Soltanto l’amore dell’arte - puro come l’acqua chiara -, quel che di sublime e di bello vive nel cuore di ogni uomo, soltanto questo dovrebbe portare con sé l’attore quando entra in teatro. Migliaia di secchi di tale acqua pura servirebbero per lavar via lo sporco con cui le passioni e gli intrighi degli uomini hanno contaminato il teatro.

Kostantin Stanislavskji (citato da Eugenio Barba e Nicola Savarese in ‘I cinque continenti del teatro’ ed.Pagina 2017)
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STREHLER MORDEVA LE POLTRONE…

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 Strehler è stato il più noto della generazione dei giovani registi che volevano voltar pagina rispetto agli intellettuali della ‘nuova regia italiana’, fedele ‘allo spirito puro’ del testo (oltre a Visconti, Orazio Costa e altri). Soffriva 'il complesso di Luchino' e Valentina Cortese, per esempio, si ricorda ancora le scenate di gelosia dell’irascibile Strehler quando qualcuno osava nominare Visconti. 

 Strehler volle però rendere omaggio al talento del 'rivale maggiore' e riconoscergli il ruolo guida anche nel teatro italiano, con un'intervento in tv a caldo, nel '76, appena divulgata la notizia della morte di Visconti: ‘Era un grande artigiano, voleva dare al pubblico la cosa d’arte completamente rifinita. Ci siamo visti poco ma avevamo in comune questo desiderio’.

 Come e più ancora di Visconti, Strehler balzava spesso sul palcoscenico urlando agli attori ‘si fa così’ e mettendosi a recitare in prima persona. Al Piccolo girava voce che, poco prima di fermare una prova perché qualcuno era stato troppo piatto o era andato fuori registro, ‘addentasse con rabbia le poltrone a portata di bocca’ e poi esplodeva urlando. Ripeteva che al Piccolo voleva fare ‘un teatro immune dalle banalità’. (Fonte: Claudio Meldolesi, ‘Fondamenti del teatro italiano’, ed. Sansoni 1984 e poi Bulzoni 2008).

 Anche l’ultimo riconosciuto maestro-padrone Luca Ronconi era capace di durezze al limite del disumano con gli attori, ne sa qualcosa il suo pupillo Popolizio, che ormai può serenamente raccontare alcuni episodi-clou nelle interviste.

Facile immaginare che cosa direbbero adesso, i Maestri di ieri, del declino artistico del teatro italiano e della banalizzazione televisiva degli standard di recitazione e di allestimento. 

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