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'Resterà la luce! Resterà...a far splendere' anche il caso davvero unico del successo di Alessandro Sciarroni

Alessandro Sciarroni (foto di Alessandro Cecchi)

Passati alcuni giorni dopo la meravigliosa visione in Triennale Teatro Milano di ‘U.’ di Alessandro Sciarroni, giusto per non sembrare di prendersi l’incomodo, viene da proporre le classiche ‘Cinque meditazioni sulla bellezza’ del lavoro del nostro Eroe di San Benedetto del Tronto, un autentico campione, per così dire, ‘post-dramaholico’. 

 Senza la pretesa d’impancarsi guru, per carità, ma giusto per cominciare a tracciare una rete possibile di riferimenti utili a inquadrare il caso Sciarroni, si può partire appunto, ‘si parva licet componere magnis’, dal piccolo capolavoro di pensiero - pubblicato nel 2006 e aggiornato nel 2017 -, del vecchio poeta francese di Nanchang François Cheng

 Di Cinq méditations sur la beauté , in Italia, peraltro, grazie all’elementare scelta dell’editore Bollati Boringhieri di ritagliare la frase chiave in copertina della collana Incipit, conosciamo in un battibaleno il senso primo, validissimo anche nel caso in questione.

 ‘In questi tempi di miserie onnipresenti, violenze cieche, catastrofi naturali o ecologiche, parlare di bellezza può sembrare incongruo, sconveniente e persino provocatorio. Quasi uno scandalo. Ma proprio per questo, si vede come, all’opposto del male, la bellezza si colloca agli antipodi di una realtà con la quale dobbiamo fare i conti’.

 E’ in fondo questo che ripetono anche quei magnifici sette coristi che Sciarroni fa muovere lentamente in avanti, durante ‘U.’, sempre guardando dritti negli occhi il pubblico, una canzone dopo l’altra.

Fino al clou di un'incantevole mini-versione di 'Resterà la luce' ('resterà...a far splendere come perle le nostre lacrime di figli immensamente amati', di Gianfranco Salatin e Giorgio Susana) seguita dal bis dopo gli applausi di un nuovo 'Cantico' in stile francescano, scritto da Sciarroni stesso con Aurora Bauzà e Pierre Jou, che firmano anche i pregevolissimi casting, direzione musicale e training vocale.

© Alessandro Sciarroni, courtesy dell'artista.

Primo 

 Per fare i conti davvero con la bellezza che emana dalle proposte performative di Alessandro Sciarroni bisogna anzitutto liberarsi dall’ansia dell’interpretazioni.

Non basterebbe nemmeno un Mastrolindonline potentissimo per scrostare il povero artista dalla quantità di paroloni che i numerosi estimatori cult spendono a proposito dei suoi lavori, più che altro per provare ad Adornare un po’ i propri saggi di concetti ‘post-francofortesi’ (siamo sempre alla prima celeberrima insofferenza di Samuel Beckett per l’interpretazione delle sue opere e nei confronti di Adorno per le tesi su ‘Finale di partita’). 

 La maledizione di ritrovarsi addosso troppi mantelli interpretativi si è addirittura fatta più minacciosa da quando Sciarroni è stato insignito del Leone d’Oro alla Biennale Danza di Venezia e infine adottato nel sistema teatrale francese (associato al nostro amatissimo Centquatre de Paris), diventando un personaggio decisamente di prim’ordine.

 Se volete tener lontano il mal di testa, e capirci qualcosa per davvero, rifuggite dalla ricerca di riferimenti critici o descrittivi (anche se si può indicare la lettura di almeno uno, del critico d’arte Stefano Mudu).

Basta guardarsi i lavori così ben ordinati, presentati e documentati con brevi video, sul sito che la sua Associazione, denominata compiutamente corpoceleste_C.C.00#, mantiene e abbellisce con sorprendenti immagini fotografiche animalier, e non solo, che Alessandro Sciarroni stesso ha già esposto nella mostra intitolata ’41’, a Centrale Fies, nel 2017. 

Foto di scena da una rappresentazione di 'U.' scattata da Andrea Macchia

Secondo

 Nemmeno il pubblico, ovviamente, riesce a rifuggire dalla deriva interpretativa di fronte alla disarmante semplicità del risultato del lavoro di Sciarroni, che è invece ovviamente alquanto complesso, in fase di ideazione e in termini di preparazione.    

 Anche nel caso delle canzoni corali di ‘U.’, un attimo dopo la magia, scattavano certi riflessi condizionati, persino da parte di chi si è lasciato coinvolgere completamente. Più di uno, per esempio, alla fine si è ritrovato in qualche modo urtato dalla preponderanza religiosa delle scelte, aggravata dalla fama catto-kitsch di ‘Fratello Sole, Sorella Luna’ di Riz Ortolani (le parole sono della moglie, Katyna Ranieri), legata al film di Franco Zeffirelli su san Francesco, come pure dell’aria di Messa fuori dal rifugio alpino del celebre ’Signore delle cime’ di Bepi De Marzi.   

 Nel caso di Sciarroni in generale - e di questo ‘U.’ in particolare, piuttosto che nell’ultimo spettacolare ‘Iris’ in piscina a Parigi (1) - è evidente che vi sia un approfondimento della dimensione spirituale. Diciamo pure che, tra l'altro, non è una sua prerogativa esclusiva, ma addirittura una caratteristica del teatro di ricerca artistica almeno da una cinquantina d’anni, teorizzata anche da Peter Brook, ma nel caso di Sciarroni è dichiarata. Se uno spettatore si sente urtato per qualche problema che può credere di avere con Dio e con la religione, deve comunque accettare che questa dimensione faccia parte del linguaggio, punto.   

 Ma non è che, laddove si riconosce il linguaggio del sacro, o peggio ancora un eco del ‘religioso’, si debba per forza considerare un prodotto artistico con diffidenza, come se fosse un’opera di proselitismo.

Sciarroni, sempre che voglia ‘convertire’ il suo pubblico, casomai lo fa invitando tutti a ricominciare a guardare i ‘corpi celesti’ nel sovramondo (dal ‘libro guida’ di Anna Maria Ortese): nel senso di alzare lo sguardo verso il ‘luminoso/numinoso’ - pardon! -, per uscire dalla dimensione nichilista-materialista in cui siamo sprofondati.  

Un'immagine dei coristi durante 'U.' per Triennale Teatro (foto di Alessandro Sciarroni)

 Terzo

 Se parlate di Sciarroni con una persona di teatro, come minimo vedrete uno sguardo di perplessità. Tra gli addetti ai lavori della danza contemporanea, che è poi il mondo di riferimento in cui gravita la sua Corpoceleste, non si riesce ancora addirittura a digerire il Leone d’Oro alla carriera attribuitogli già nel 2019, a 43 anni e dopo nemmeno un quindicennio di attività. 

 Sintetizzando brutalmente, dagli addetti ai lavori capita di sentir considerare Sciarroni una sorta di formalista del minimalismo, e forse la migliore spiegazione dell’equivoco si poteva già leggere nella motivazione del premio veneziano, dalla Biennale Danza che il presidente Paolo Baratta aveva affidato alla direzione della canadese Marie Chouinard, ché essa stessa veniva presentata - occhio ai corsivi - come ‘danzatrice e coreografa dal lessico primitivo e al tempo stesso raffinatissimo, che considera la danza un’arte sacra da praticare con assoluto rigore’.

 Torniamo al nostro Alessandro. Performer, coreografo, regista, con alle spalle una formazione nell'ambito delle arti visive e diversi anni di pratica teatrale, Sciarroni è un coreografo italiano - recitava la motivazione di Chouinard - che crea in risonanza con l’arte della performance. È il direttore d’orchestra dei danzatori e di tutti coloro che, provenienti da diverse discipline, invita a partecipare ai suoi progetti. Costruisce dei concentrati di vita al limite dell’ossessione disponendoli attorno a eventi scelti delle nostre vite fragili e ordinarie. Mette in scena i nostri corpi quotidiani in uno spazio che amplifica l’insistenza a trovare la falla che ci addolcirà e solleverà’.

 Ed eccoci al punto: nella vecchia Italia a compartimenti stagni, si fatica tanto ad accettare che teatro, danza, musica e arte performativa si siano ormai ibridate; perciò suscita la massima diffidenza chi riesce a collocarsi liberamente all’intersezione dei generi, e lo fa oltretutto mettendo a nudo la scena o, addirittura, uscendone del tutto. 

 Quarto

 Per comprendere la poetica di Sciarroni può essere molto utile il racconto aperto che ha fatto di sé stesso e del suo lavoro quest’estate al Madre di Napoli, nel ciclo di incontri ‘Creare comunità’, con Monica Coretti, critica d’arte e animatrice culturale. 

 Così si può comodamente portare a casa, al primo ascolto, i passaggi chiave della sua storia, per esempio il rapporto con una ‘zia/sorella’ down, gli studi da geometra e poi d’arte, con la passione per il performativo estremo, l’assenza totale e dichiarata di preparazione filosofica.

E, alla fine, anche una citazione chiave che converrebbe infilarsi in tasca anche per assistere alle sue performance.

 E’ una frase piuttosto nota di Italo Calvino, che la stessa Coretti ha usato, in abbinata con l’incipit di Cheng, per aprire un suo saggio sull’arte e la trascendenza intitolato ‘Scintille’ (ed. Il pozzo di Giacobbe), ma che vale perfettamente per affrontare le opere di Sciarroni.

‘L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio’.

© Alessandro Sciarroni, courtesy dell'artista.

Quinto

Che vi piaccia o meno, il miracolo Sciarroni è avvenuto - e si svolge ancora - tutto al di fuori del nostro sistema teatrale istituzionale, e in generale del grande flusso dei finanziamenti statali alla cultura.

Ha addirittura rinunciato all’idea stessa di avere una Compagnia regolarmente registrata al Ministero, e di chiedere gli eventuali contributi pubblici, ché tanto si sa quanti pochi soldi si riescono poi a recuperare, sempre troppo tardi rispetto ai tempi della creazione, e con quali interminabili e folli regole burocratiche.

 Di fatto il suo lavoro è principalmente di tipo artistico, e come tale è anche trattato e interpretato dai critici. Ha anche un modello dichiarato, che è la performer portoghese Helena Almeida, molto nota per le sue azioni fotografiche con l’uso sovrastante di spazzolate di colore blu ai suoi autoritratti.

 Anche questa sorta di ante e anti-Marina Abramovic di Lisbona riporta ai corpi celesti, non solo perché così la indica Sciarroni nel suo stesso orizzonte, ma anche per via di una frase programmatica di paradossale ribaltamento dell’egotismo artistico, con cui la Almeida accompagnò le azioni fotografiche: ‘Il corpo fisico dell’artista verrà costantemente perso, cancellato, oscurato dal compito che a volte lo estende, a volte lo ricopre, che entra o esce (da e attraverso esso) dalle profondità di questo corpo’.

  Riassumendo le nostra piccole cinque considerazioni sulla bellezza, dal caso Sciarroni lo spettatore appassionato può imparare a diffidare delle interpretazioni, ad aprirsi alla dimensione spirituale senza pregiudizi, ad accettare che i desueti confini tra le discipline non esistano più, a esercitarsi invece per riconoscere e rispettare ogni scintilla artistica, a prendere definitivamente atto che il talento vive fuori dalle istituzioni.  

Applausi a Parigi per la performance-evento 'Iris' (foto di Luca Ianelli)

NOTA(1) Si pensi soltanto al recente evento clou di ‘Iris’, commissionato dal Festival d’Automne à Paris e prodotto all’interno di Paris 2024- Olympiade Culturelle, nell’ambito del festival FORMES OLYMPIQUES e delle Giornate del Patrimonio. Si legge nella scheda:

 ‘IRIS è una performance inedita di Alessandro Sciarroni creata su invito e commissione del Festival d’Automne à Paris.

Sotto la volta maestosa della piscina coperta di Butte-aux-Cailles, luogo storico dall’architettura Art Nouveau, l’artista crea uno spazio etereo in cui il pubblico si muove attorno a nuotatori e nuotatrici con disabilità, e a un ensemble musicale. Dodici cantanti intonano a cappella il Sicut Cervus di Giovanni Pierluigi Da Palestrina, un mottetto sacro della fine del XVI secolo.

L’incontro tra atleti e cantanti permette di interrogarsi sul concetto di allenamento fisico, di chiedersi se si possa galleggiare e cantare allo stesso tempo, quale forma prenda la voce quando si fa un tuffo, e rende omaggio alla bellezza e alla fragilità della vita. Da un punto di vista simbolico, questa installazione performativa mira a considerare la piscina pubblica come un luogo di abbandono, rigenerazione e superamento dei limiti fisici; dove attraverso il contatto con l’acqua, è possibile lasciare andare l’energia, vincere la gravità, entrare in contatto con sè stessi. Una performance tra arte e sport che fa riferimento ai Giochi Olimpici di Parigi, e in particolare al loro volto meno mediatico, i Giochi Paralimpici’.

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