

Identità, che parola sconvolgente nell'Europa di oggi: 'Parallax' e pochi altri appuntamenti imperdibili
09.03.2025
" />
La citazione
Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare.
‘Rescue complete, I repeat: rescue complete’. Per ora possono chiuderla così, proprio come nel finale di ‘A place of safety’, anche Enrico Baraldi e Nicola Borghesi, con Roberta Gabriele, Dario Salvetti, Giovanni Zanotti e gli altri compagni di strada?
In effetti, il salvataggio è finito anche per Kepler-452, e non c’erano carabinieri ad aspettarli in porto come quando sono scesi da SeaWatch5, ma soltanto qualche migliaio di spettatori, che alle prime quattro repliche ‘sold out’ nella sala grande dell’Arena del Sole di Bologna, hanno seguito le quasi due ore di rappresentazione con palpabili e sincere commozione, rabbia e compassione, prima ancora d’esplodere in lunghe ‘standing ovation’.
Ottimo, saranno andati finalmente a riposarsi, Enrico e Nicola e compagni. Almeno non sono finiti sommersi dall’imponenza di un impianto teatrale borghese, ché Dio-solo-sa se potranno davvero ripetere ‘rescue complete’ anche i megafoni delle anime di questi Extra-Terrestri, abituati da qualche anno a fare puntualmente irruzione nella stanca e trita scena teatrale italiana, per squarciare un po’ il velo della realtà con il racconto di realtà.
Dopo aver cavalcato la tigre del kolossal, a Kepler-452 tocca in sorte di tornare subito alla dimensione lillipuziana, alla verità del rapporto diretto con poche decine di spettatori, per varie repliche (le prime sono il 12-13 marzo a Trento) di quel gioiello di ‘Album’.
Oltretutto, in termini per così dire di ‘gradazione morale’ del contenuto, ‘Album’ si colloca esattamente al passo prima di questo ‘A place of safety’, legando il tema dell'Alzheimer al dopo alluvione in Romagna.
In fondo, la nostra indifferenza nei confronti delle tragedie dei migranti è un caso specifico, forse il più inaccettabile, di quella sorta di perdita della memoria collettiva della nostra civiltà, ormai schiava di un materialismo dell’accumulazione maniacale che nega persino la bellezza della solidarietà.
Purtroppo, come mi fa notare la solita vicina di poltrona intelligente, si deve constatare la progressiva crescita di una consapevolezza radicalmente pessimistica, da parte degli autori de ‘Il Capitale’ di lotta e di teatro, prima, e poi dell’umanissimo e già sofferente ‘Album’.
Ora sembra che dal mare anche i kepleriani siano tornati con l’orizzonte chiuso da quelle onde scure e terribili, ed era abbastanza prevedibile che ne sarebbero usciti sfiniti. Ma sono chiacchiere da spettatori adulti e senior, che sono come genitori per questi ‘ragazzi’: vorrebbero sempre e solo vederli sorridere alla rossa primavera da conquistare dove sorge il sol dell’avvenire.
Peccato che non sia proprio possibile.
Bisognerà aspettare il ritorno dalle varie missioni di soccorso che s’intensificano con le belle stagioni, dei cinque veri protagonisti del racconto di questo ‘Viaggio nel Mediterraneo centrale’, per assistere alla tripla ripresa di ‘A place of safety’, verso fine 2025, in casa dei co-produttori che hanno affiancato ERT Emilia Romagna Teatro.
Si comincia a novembre, per il festival ‘Rencontres des Arts de la Scène en Méditerranée’ che organizza il Théâtre des 13 vents di Montpellier; segue, il 2 dicembre, la replica al Teatro Palamostre del CSS di Udine (dove dal 10 aprile, in sala Pier Paolo Pasolini, Kepler-452 presenta 4 repliche di ‘Album’); e dal 4 al 7 dicembre 2025 rieccoli al Teatro Metastasio di Prato (altra bella realtà di provincia dove, tra l’altro, Baraldi nel 2022 è riuscito a varare, con un pugno di attrici ucraine, il notevole ‘Non tre sorelle / He tpи cectpи - Liberamente non ispirato a un’opera di A. Cechov’).
Attenzione: si parla anche di una prossima ‘versione lettura’, nuda e cruda sul testo preparatorio, poco più o poco meno, che dovrebbe tenersi a Milano, a metà maggio, nell’ambito di un nuovo festival di Zona K. Benissimo.
Per chi ha già visto la versione teatrale grandiosa, sarà pure l’occasione di poter verificare ancor meglio, come entrando nel laboratorio di Kepler-452, la sostanza di questo lavoro.
‘A place of safety’ è infatti sembrato così tanto dentro alla scrittura e alla drammaturgia, senza cedimenti facili al pietismo e alle ideologie, come i grandi romanzi di mare di fine Ottocento si fondavano su mirabolanti costruzioni narrative pre-psicanalisi (ovvero sulla convenzione anche un po' reazionaria che ‘il cuore di tenebra’ esista e sia davvero tale), prive di fronzoli e di facili spiegazioni pseudo-razionali.
La scelta del tema meta-teatrale, di come una compagnia approccia il mondo dei soccorsi in mare per raccontarlo in uno spettacolo, e l’abilità con cui è costruito il crescendo drammatico, intessuto all’inizio con ironia e disincanto, non fa che mettere in luce la verità dei personaggi scelti e portati in scena, così ben assortiti e calibrati: cinque ‘attori’ veri e naturali, che non interpretano ma confessano ciascuno le proprie contraddizioni, piccole e grandi.
Come a specchio, il narratore Borghesi racconta addirittura d’aver sempre avuto paura persino dell’acqua, e mette in piazza tutta la contraddittorietà di questo lavoro, ammettendo che è pure troppo accattivante e tanto razzista, fatto soltanto da bianchi, fino al monologo in cui motiva la decisione di chiudere il racconto con le immagini della festa dei naufraghi scampati sulla nave.
Detto tra parentesi - é un mezzo spoiler! - in realtà ci saranno poi pure un contro-finale e un finale, non senza prima un bellissimo ‘dopo-ultimo monologo’ di documentazione fotografica (ecco, forse solo in questo sovrappiù di finali, sì, che si vede 'il solco' di Milo Rau; per il resto zero: il guru svizzero tedesco avrebbe fatto la sua bella ‘Ifigenia in SAR-Sea-Med’, invece che in Tauride...).
In particolare quel fermo immagine - spoilerissimo! - sul corpulento carabiniere in borghese che mette al muro con il numerino per la fotografia segnaletica un piccolo bimbo nero, manco fosse baby-Scarface, è francamente terribile e disarmante: ci racconta in quale ribaltamento di valori e di senso siamo precipitati.
Peraltro tutta la scelta delle immagini girate e raccolte da Enrico Baraldi è assolutamente perfetta, anti-retorica, imprevedibile e pregnante. Quell’orizzonte marino cupo cupo e minaccioso, sparato lungo quasi l’intera scena, alla partenza della missione di Sea Watch 5, è esattamente quel che si porta poi dentro lo spettatore, nonché rappresenta di fatto la suggestione che anticipa l’apoteosi dell’eroe, il capo-missione Miguel Duarte, nel monologo in portoghese sul degrado morale europeo.
A Duarte è affidato anche il compito di aprire e in qualche modo di presentare l’intero lavoro, comunicando al pubblico l’unica autentica possibilità di trovare un senso residuale - ‘forse lo facciamo soltanto per noi stessi’ - alla disperante dissennatezza dell’impegno ‘umanitarista’ in mare, che a specchio è poi identica all’impossibilità del racconto teatrale dello stesso e, sempre più in piccolo, all’insopportabile posizione comoda di spettatori di questa finzione.
Ciascuno dei protagonisti ha una parte precisa, ritagliata su misura e ‘autenticata’ con aneddoti di vita vissuta perfettamente calibrati: il vecchio ex sommergibilista Flavio Catalano, ormai disarmato di fronte alle ideologie e persino alla riconoscenza umana; l’elettricista folle José Ricardo Peña, latino-americano, figlio d’immigrati clandestini in Texas, il più naturalmente vicino alla condizione dei migranti e il meno consono alle regole delle organizzazioni umanitarie.
Ci sono poi l’ex infermiera di pronto soccorso Floriana Pati, che è una specie di deuteragonista di Duarte sulla nave; la militante e studiosa di diritto dei rifugiati Giorgia Linardi, che di Sea Watch è anche portavoce, cui tocca il compito ingrato di fare il punto sulle parti più ostiche, a cominciare dal terribile e disumano regresso politico imposto alla guardia costiera e alla marina militare.
Di primo acchito la materia stessa, così sporca - nel senso proprio, del maleodorante ‘distress’ dei naufraghi che Floriana ci racconta così bene, e pure di riflesso, nella nostra coscienza d’indifferenti -, impedisce di stare sereni e men che meno freddi a giudicare lo spettacolo.
Un altro vicino, arrivato al definitivo groppo in gola dopo il primo monologo dell’infermiera, sul destino che attende in Italia i salvati, confessa che si sarebbe volentieri alzato dalla poltrona per guadagnare l’uscita verso una confortevole lasagna.
Esattamente come il dramma stesso di cui parla, anche ‘A place of safety’ è un caso di ribaltamento delle aspettative. Più che farsi ammirare per grandiosità, schiaccia e fa sentire piccoli-piccoli, e meschini, gli spettatori con un barlume di coscienza, da andare tutti a confessarsi subito per il peccato d’omissione (non a caso uno dei più rimossi dalle chiese).
Questo salto quasi nell’etica cristiana delle origini, si poteva già intuire grazie a due puntuali presentazioni comparse con grande rilievo sul gornale cattolico ‘Avvenire’, a firma di Michele Sciancalepore, e su ‘Famiglia cristiana’, con un’intervista congiunta a Baraldi e Borghesi, di Antonio Sanfrancesco.
In questo ampio testo i due ‘marpioni’ kepleriani facevano addirittura cenno a una personale riscoperta della dimensione religiosa e spirituale durante la preparazione di questo lavoro, ma chi può dire che non fosse soprattutto per la gioia delle mamme che non li hanno visti per settimane?
Nessuno può credere che a Kepler-452, dove fingono già di aver compulsato l'ostico malloppone di critica dell’economia politica di Marx, adesso si siano messi a leggere il Nuovo Testamento, anche solo quel centinaio di versetti della Lettera di Giacomo, o addirittura giusto al capitolo 4,11-17, con il più esplicito richiamo all’imperativo morale di fare il bene se si conosce qual è: ché questo sapere che cosa sarebbe bene fare, ma non farlo, è davvero un peccato grave - ed è il nostro stesso, guarda caso, di spettatori, soprattutto dopo ‘A place of safety’.
I lettori cattolici hanno avuto la possibilità anche di conoscere la più semplice e precisa esposizione di poetica teatrale di Baraldi e Borghesi: ‘Per noi la possibilità di avere delle persone (di Sea Watch e Life support) che hanno visto e vissuto questo fenomeno con i loro occhi e che hanno agito con il loro corpo è un grande valore aggiunto ed è molto diversa, dal punto di vista teatrale, scenico e del racconto, rispetto che ad affidarlo ad attori professionisti'.
Ancora (corsivi nostri): 'Non è tanto una sfiducia nelle possibilità del teatro, ma appunto una fiducia ancora maggiore nella possibilità del teatro di essere un luogo aperto ad accogliere storie, testimoni diretti, vissuti personali. Se vogliamo, è il ritorno all’idea di un teatro come luogo di formazione civica ed espressione dell’agora, come avrebbero detto i greci del quinto secolo, in cui due comunità si incontrano – una per raccontare una storia e l'altra per sentirsela raccontare. Come già accade tra cinema e documentario, anche il teatro si può inserire in questo filone di non mediazione e tessere questo filo diretto tra testimoni e ascoltatori’.
Perfetto. Ed è davvero confortante notare come Kepler-452 riesca poi così a farsi comprendere e accettare anche dagli spettatori più difficili, in primis quelli delle ultime generazioni, che per formazione e gusti artistici hanno maturato una giusta repulsione nei confronti del vecchio teatro-teatrante e del nuovo intellettualistico, inutile e bolso (prova ne sia anche soltanto la precisa recensione di Emanuela Zanon sul magazine online Juliet).
Ma ogni considerazione ulteriore e specifica vale quel che vale, poco o nulla, rispetto al risultato agghiacciante di questo racconto di realtà, che sbatte garbatamente in faccia a noi spettatori quello che ‘nessuno di noi’ vuole vedere.
E lo fa, oltretutto, attraverso la mediazione perfetta di personaggi e di storie così potenzialmente da ‘uno di noi’.
La distanza è davvero corta, grazie a Borghesi stesso (in fondo fa la parte anche del primo spettatore in scena), sia in particolare con le due straordinarie figure femminili, la perfetta neo-kepleriana Floriana e questa ‘Altra Giorgia’ così agli antipodi rispetto alla nostra/o illustre premier. Esempi viventi, con l'immenso Duarte, di quanto Guccini - altro che Battiato! - avesse ragione: 'gli eroi sono tutti giovani e belli...'
A proposito di politica, perché di questo soprattutto si tratta, una bella domanda sui contenuti della manifestazione per l’Europa se la sarebbe posta seriamente lo stesso Michele Serra, se avesse lasciato per una sera il suo ‘buen ritiro’ nel vicino Appennino per assistere anche soltanto al primo racconto di Giorgia Linardi e al monologo chiave di Duarte.
Per non dire del bravo primo cittadino di Bologna, Matteo Lepore, subito schieratosi tra gli entusiastici sindaci organizzatori della sfilata ‘europeista’, che risulta essersi poi discretamente seduto in platea, da spettatore, nel suo teatro, per questa così importante nuova prova della compagnia gioiello della sua città.
Possono sempre rimediare, Serra, Lepore che l'ha visto e apprezzato, e tutti i nuovi 'ursulisti e riarmisti' di complemento: si facciano mandare una piccola registrazione degli spezzoni chiave di 'A place of safety' da proiettare in piazza, chiedano magari ai kepleriani se è possibile allestire al volo una versione ridotta, una breve lettura.
Si dovrà pure dar retta agli artisti dissidenti: non saremo mica di fronte a un clima da nuovo stalinismo, quando qualunque critica e qualunque diversità diventavano subito attività ‘anti-sovietiche’?
Quest’Europa che si crede 'assediata' ai confini, dai poveracci prima ancora che dai russi, fa proprio schifo e noi tutti ‘europeisti’ di risulta, meritiamo davvero di finire in fretta - ‘come vapore che appare per un istante e poi scompare’, quale tutti noi umani siamo - nello stesso inferno di cui abbiamo spalancato i cancelli ai migranti.