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Stendiamo un velo pietoso sul povero Popolizio ucciso da Miller (o no?)

Massimo Popolizio in 'Uno sguardo dal ponte'

  Stendiamo subito un bel velo pietoso su Eddie Carbone, il protagonista di ‘Uno sguardo dal ponte’ di Arthur Miller riportato in scena da Massimo Popolizio, al quinto o sesto tentativo di presentarsi anche come regista, di un ‘teatro popolare di qualità’, niente di più, per carità!: ‘finché c’è stato Ronconi’, dichiara disarmante l’ormai 62enne attore, ‘non avrei mai osato fare una regia…’.

 Ce lo immaginiamo ancora lì bloccato in scena, in ginocchio, come morto, il povero Eddie-Popolizio, che si è fatto travolgere dai sentimenti e dagli affetti come 'un idiota’, definito tale poco prima, platealamente, dal cinico narratore.

Ad ammazzare Eddie-Popolizio è un orgoglioso e disgraziatissimo ‘cafone’ siculo, con lo sguardo di fuoco e l’uncino da scaricatore di porto in mano, Marco, un personaggio che viene centrato benissimo, quasi al limite del macchiettistico, da Raffaele Esposito, attore non a caso anche lui avvezzo al perfezionismo estremo ronconiano.

 Non è cattiveria, la distesa di quel velo sembra volerla suggerire Popolizio stesso, fin dall’inizio, quando preferisce restar fuori e lasciar entrare per primo il narratore, l’avvocato Alfieri, che arriva in scena cantando come un tenore il melodramma che s’annuncia. Per cantarle invece ancora al Massimo regista e al Popolizio attore, va annotato, un tanto al chilo - a occhio e croce vanno oltre i 130 quelli dell’imponente Michele Nani, un bravissimo Alfieri-, che è facile affidare la conquista del pubblico a un attore così consumato, cresciuto a pane e Strehler, tanto pane e tanto Piccolo...

Quando fa poi capolino lui, l'attore Massimo, si aiuta baloccandosi con una poco più che Lolita italo-americana anni Cinquanta, Catherine, figlia adottiva e ossessione di Eddie Carbone, rosso-chiomata e di una selvaggia prorompente vitalità, nell’interpretazione in tono alto e volutamente quasi ambiguo dell’attrice Gaja Masciale (che Popolizio ha tenuto a battesimo fin dall’Accademia Silvio D’Amico).

 Non è che poi si faccia ingannare nemmeno il pubblico, che riempie la platea sistematicamente anche a Milano, fino al 21 maggio al Piccolo Teatro Strehler (per l’esordio, all’Argentina di Roma, l’assalto è stato tale che si sono dovute aggiungere repliche non programmate): il primo applauso che interrompe i 90 minuti filati della rappresentazione, se lo prende la strepitosa ‘tirata’ di Valentina Sperlì, un' autentica brava attrice, romana, con una bella carriera, che così bene interpreta la moglie trascurata e ferita di Eddie Carbone, e sfida la giovane rivale quasi con sprezzo, ‘Ma tu credi che io sono gelosa di te?’, mentre si mette il rossetto con femminilità ferina, e invita la ragazza a crescere e a trovarsi la propria strada. 

 E che bravo anche il biondo-tinto tanto biondo Lorenzo Grillo, perfetto anche lui a far la figurina di Rodolfo che sogna Broadway, per non dire del tocco d’armonia con cui si muove in scena persino il bellimbusto di contorno Louis,  Felice Montervino, a creare quegli attimi di distrazione giusti, come un plus della colonna sonora a tema anni Cinquanta.

 Che altro aggiungere? Beh, a proposito di scena, forse Margherita Palli era già impegnata a salvare il Romeo e Giulietta di Mario Martone, e così la produzione di ‘Uno sguardo dal ponte’ (che è poi il grande vecchio inarrestabile Umberto Orsini), se ne deve essere fatta una ragione, anche di beccarsi un altro ronconiano, Marco Rossi, che aveva firmato pure l’impianto dell’ultimo magnifico ‘Lehman Trilogy’ e in fondo ripropone di nuovo un’idea semplice e così efficacemente cinematografica in questa sua Brooklyn.

I costumi di Gian Luca Sbicca sono in sintonia perfetta e ovviamente pure le luci di Gianni Pollini fanno parte del gioco (del resto hanno già lavorato più volte con Rossi). Suono di Alessandro Saviozzo con il suo team bell’impegnato al banco per rendere bene, e a volte moderare, le voci naturali degli attori, quando, anche per motivi legati al ruolo o al momento, vanno su di tono e, come Nani, quasi sull’orlo del palcoscenico, proprio davanti ai microfoni ambientali. 

 Infine, a proposito di quel ’teatro popolare di qualità’ che Popolizio ostenta di voler praticare per questo spettacolo, si potrebbe disquisire sulla scelta di accentuare, a tratti fin troppo, la sicilianità dei protagonisti. E, infatti, è stato molto discusso questo dettaglio tutt’altro che insignificante, e nel pubblico c’è già chi addirittura durante lo spettacolo fatica ad accettare i passaggi in siciliano, e se ne sentono poi sempre puntualmente gli strascichi, nei vari capannelli di spettatori che si formano sulle scale e all’uscita. 

 Volendo, chi ha una certa consuetudine con lo stile personalissimo di Popolizio come attore, sa che non è il solito divo che si fa schiacciare fino in fondo dal talento e dal mestiere, ovvero dalle mostruose capacità d’incantare la platea, e anzi ogni tanto s’inciampa apposta, o butta via qualche battuta con sufficienza, insomma devia dal percorso obbligato e facile di strizzare sempre l’occhio al pubblico. E altrettanto prova a fare, come regista, inserendo quel gradino in più d’ardua comprensione, con il dialetto siciliano (su cui ha lavorato con un insegnante ad hoc, Salvo Tessitore) che costella qua e là la traduzione italiana del capolavoro di Arthur Miller curata da Masolino d’Amico.

 E’ tutto qui? Eh no, accidenti! Nella fretta di scrivere questa piccola cronaca del giorno dopo, è rimasta sul taccuino l’osservazione di un gruppo di ragazzi entusiasti all’uscita, che notano quanto lo spettacolo risulti anche di così forte attualità, inevitabilmente politica, ma pure antropologica: ‘un po’ gli italiani sono davvero ancora così’, dice una ragazza d’origione moldava che era seduta in fila 16, a destra, inteso come settore di platea e non certo come tendenza. 

 Non servono gli appunti, per ricordare infine la scena clou dell’incontro tra l’avvocato Alfieri e Eddie, un fulcro di verità del testo, che non si può spoilerare più di tanto, ma qui diventa un momento di recitazione che da solo vale altrochè il biglietto, forse quanto il mestiere stesso dello spettatore.

E così che Nani fa da immensa spalla a Popolizio, e da Massimo questi diventa superbo anche a superare la gabbia della sua stessa grandezza. Forse questa scena sembra più impressionante sul palcoscenico intitolato a Giorgio Strehler, nel Piccolo Teatro dove è ancora di casa lo spirito di Luca Ronconi, e dio solo sa se non fa ancora tremare qualcuno… 

 P.S.: dell’attore Massimo non si sa nemmeno più che cosa scrivere di buono; del regista Popolizio basti infine ammettere che sono rubate dalla sua intervista sul programma di sala quasi tutte le osservazioni ‘critiche’ di cui sopra. Perciò con questo ‘Uno sguardo dal ponte’ Massimo-e-Popolizio si meritano tutti gli applausi e l’affetto del pubblico, quanto mai notevoli, che stanno riscuotuendo.

Lorenzo Grilli, Valentina Sperlì, Popolizio e Gaja Masciale

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