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Un nuovo teatro italiano dovrà pur nascere. 5/ Dopo 'Zio Vanja' Leonardo Lidi va alla sfida decisiva con i Maestri

Massimiliano Speziani con Mario Pirrello in una scena di 'Zio Vanja' di Lidi (foto di Gianluca Pantaleo)

 E’ arrivato ormai quasi a fine tournée questo ‘Zio Vanja’ di Leonardo Lidi: dopo le rappresentazioni a Milano mancheranno un pugno di date, e una quarantina sono già alle spalle. E così, il 17 aprile, alla fine della seconda replica nel Piccolo Teatro Strehler, c’è anche chi prova a tracciare un bilancio provvisorio.

Insieme con gli ultimi spettatori che sembrano non volersene andare, è rimasto in sala un solo tecnico a spegnere le spie, staccare prese e spine, insomma a sistemare tutte le varie consolle sul banco di regia.

 Ha l’aria tranquilla e sembra di ottimo umore, così si può approfittarne per andare a caccia d’indiscrezioni. E la prima domanda naturalmente riguarda il più imprevedibile dei protagonisti di questo allestimento: ‘Ma il cagnolino?!? Com’è possibile farlo recitare? Ogni sera avrà fatto qualcosa di diverso...’. 

 Il professionista concentrato su tutti quei giri di cavi si gira un attimo, sorride complice con l’interlocutore occasionale e risponde così: ‘Ah, beh, se è per questo bisogna dire che lui è proprio padrone della scena, fa quel che vuole, altro che!’

 Giusto per dare brevemente il quadro della situazione, diversi spettatori, bisbigliando con il vicino, si chiedevano subito se fosse vero, in carne ed ossa, e folto pelo nero, questo quadrupede anzianotto e girovago che apre lo spettacolo, sottolineando subito in qualche modo anche lo spaesamento in cui vivono i personaggi cechoviani, che peraltro Lidi mostra già come inchiodati alle proprie vite. 

 Il cagnolino, tra parentesi, risulta essere un autentico Scottish Terrier nero, stando alla prima delle due recensioni cult riportate nel libretto di sala. Ma restiamo alla cronaca del dopo. 

 Si fa in tempo a salutare e ringraziare il gentilissimo tecnico, ché immediatamente risponde ai complimenti di rito, quasi respingendo il ‘bravi’ con sincera modestia: ’sì, sì, è vero, è uno spettacolo bellissimo, ma il merito è tutto degli attori. Loro sono bravissimi, loro’. 

 Ecco il punto. Sembra quasi che abbia cura di restare un passo indietro, anche stavolta, Leonardo Lidi, tanto bene riesce a costruire lo spettacolo. Del resto lo aveva detto chiaramente, presentando il progetto di un trittico da Cechov per il Teatro Stabile dell’Umbria con Festival di Spoleto e Teatro Stabile di Torino.

 ‘La scelta di attraversare l’opera di Cechov’ ha dichiarato Lidi, ‘è stata determinata dal fatto che nessuno come lui riesce a infondere nello spettacolo un così profondo amore per l’attore, e per il ruolo dell’attore. Questo progetto mi ha dato modo di mettere al centro un gruppo di attori, selezionati con cura, di tutte le generazioni, provenienti da percorsi molto differenti tra loro. Volevo comporre una compagnia che fosse, in qualche modo, ‘metafora’ del teatro italiano, facendo lavorare insieme attori con percorsi indipendenti e attori con percorsi più ‘classici’, tutti però caratterizzati da un’esperienza diretta con la lezione dei grandi maestri italiani di fine Novecento: una visuale a 360 gradi, anche in senso geografico’.

 Ecco, di particolarmente pregevole, Lidi ha anche le idee e le intenzioni, oltre all’indiscutibile bravura che ne fa ormai uno dei più capaci protagonisti della nuova generazione che dovrebbe prendere in mano le redini del teatro italiano, per farla finita con i soliti quattro mediocri che si credono qualcuno. 

 Fin dai primi passi come regista, mossi a nemmeno 30 anni, nonostante la fortuna di aver trovato in Antonio Latella il talent scout e un maestro, Lidi non si è lasciato imprigionare dalle logiche ‘amichettistiche’ del sistema che pure lo degna di considerazione (è artista associato al Teatro Stabile di Torino, dove peraltro insegna). E lui è il primo che continua a porre senza timore la questione dell’urgenza di un ricambio e di una rifondazione della nostra scena.

 Tornando a questo ‘Zio Vanja’, che segue un eccellente ‘Gabbiano’, sarebbe davvero un peccato imitare i critici che s’impancano a esperti e raccontare tutto rovinando lo spettacolo a quelli che non hanno ancora avuto la fortuna di vederlo a teatro, fosse pure anche soltanto uno spettatore, uno. 

 E a proposito degli uni e degli altri, proprio dopo questa replica milanese, si poteva ascoltare una signora che diceva all’amica sospirando sulle scale verso l’uscita: ‘è così bello questo spettacolo, che tornerei a vederlo domani, anzi, perché non guardiamo subito se ci sono ancora biglietti per i prossimi giorni?’ 

 Fa sempre piacere trovare in giro altri dramaholici. Piccola avvertenza: almeno la seconda volta bisognerebbe riuscire a conquistare una poltrona sulle primissime file. La grandezza di questo allestimento non è solo - o tanto - nella scena elementare e coerente con il testo, nei dettagli teatrali così indovinati (luci di Nicolas Bovey, suoni di Franco Visioli, costumi di Aurora Damanti) e, in definitiva, in quelle poche immagini quasi fotografiche, d’impatto, che Lidi ha la grazia di saper costruire.

C’è dell’altro, ed è la sostanza della recitazione che fa rivivere il testo (nella traduzione di Fausto Malcovati) in tutta la sua bellezza.

 Per tornare un attimo al libretto di sala, che pure contiene pregevolissime pagine, per esempio un brano introduttivo sull’opera cechoviana di Margherita Crepax che illustra meglio il celebre ‘un giorno riposeremo’ finale, dispiace che non sia stato riconosciuto agli attori lo spazio che meritano, anche se è vero che le brevi biografie dei protagonisti compaiono soltanto nelle produzioni del Piccolo Teatro stesso.

 E’ che questo cast, tutto (in ordine alfabetico Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, llaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello e Tino Rossi: segue per gli altri due) si mostra davvero all’altezza. 

 Certi di non far danno a nessuno, il primo nome da sottolineare è ovviamente Massimiliano Speziani, un così indovinato Zio Vanja, che aggiunge, se possibile, un’altra medaglietta alla collezione della sua bella carriera.

Ancora un nome inevitabile, e ci si arriva citando di nuovo quel disarmante genietto di Lidi: ‘Non ci pensiamo mai ai titoli, ma se la commedia si chiama Zio Vanja e non solo Vanja, è per Sonja’. E Giuliana Vigogna è una Sonja davvero superlativa.

 Imbruttita da un trucco ad hoc, perfetta anche in un certo understatement, nonostante il ruolo, Giuliana è capace di una gestualità appena accennata eppure così trasparente rispetto all’imbarazzo esistenziale del personaggio, vedi certe posizioni dei piedi.

Par di capire che sia ormai da cinque anni una delle attrici predilette di Lidi, sono stati persino insieme sul palcoscenico in ‘Santa Estasi’ di Antonio Latella. Anche lei classe 1988, Vigogna vanta un curriculum eccellente e già diversi riconoscimenti, stavolta si può misurare pure con un finale cechoviano di quelli che qualunque attrice sogna di poter interpretare: ‘ci volteremo a guardare le nostre disgrazie di oggi con tenerezza, con un sorriso… e riposeremo!’ 

 Al Festival dei Due Mondi di Spoleto, quest’estate, andrà in scena l’ultimo atto della trilogia di Lidi, che sarà ‘Il giardino dei ciliegi’, e non a caso, con un piccolo ‘gancio’ da serialità, in questo ‘Zio Vanja’ ha aggiunto un altro protagonista silenzioso, oltre al cagnolino, ed è il vecchio Guardiano. Il 7 luglio, addirittura, i tre spettacoli saranno rappresentati uno dopo l’altro, e sarà un evento davvero eccezionale. 

 In ogni caso il Giardino è un banco di prova decisivo, anche solo rispetto alla tradizione italiana (vedi il celebre allestimento di Giorgio Strehler e anche solo il più recente di Alessandro Serra) nella quale Lidi così lodevolmente intende inserirsi. 

 Altrettanto poco ordinaria è la sfida ideale che attende il nuovo spettacolo presentato da Lidi alle Fonderie Limone Moncalieri del Teatro Stabile di Torino, una ‘Medea’ post-moderna e de-mitizzata,con Orietta Notari che si era fatta notare anche nel cast del ‘Gabbiano’ (1). L’evento di chiusura della Biennale Teatro a Venezia, a fine giugno, sarà proprio un’altra nuova ‘Medea’, di tutt’altro stile teatrale rispetto a quello di Lidi, fin dal titolo, ‘Medea’s Children’. E’ l’ultima produzione di Milo Rau per NtGent e Wiener Festwochen.

 Si vede che ognuno ha gli sfidanti (seppur ideali) che si merita. E Lidi, anche se ha poco più di trentacinque anni, potrebbe giocare già nel campionato dei Maestri. 

Da sinistra Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Vigogna, Spaziani, Ilaria Falini, Francesca Mazza, Pirrello e Angela Malfitano (foto di Gianluca Pantaleo)

(1) COM'ERA, PRIMA, MEDEA?

Note di Leonardo Lidi 

Una mappa. Quando ripenso a questo triennio vissuto insieme al Teatro Stabile di Torino immagino una mappa scarabocchiata, usurata, spiegazzata e sempre con me. In questo pezzo di carta ho delineato un percorso, ho segnato delle tappe imprescindibili, ho annotato dei luoghi/contenuti da visitare e inserito di tanto in tanto dei punti interrogativi per domandarmi quale fosse la strada più bella – e non la più veloce – da percorrere.

In questo triennio post pandemico, quando mi è stato chiesto di presentare un progetto personale, mi sono detto che prima di rientrare in sala c’era bisogno di empatia volontaria rispetto al pubblico, di scacciare la paura delle emozioni, e soprattutto ho pensato che fosse arrivato il momento di mettere l’amore al centro del progetto, di organizzare un Simposio lungo trentasei mesi dove potersi mettere a nudo per discutere delle bizzarre scelte del nostro cuore. E quindi 'Misantropo' e 'Come nei giorni migliori'. E intorno a questi spettacoli quanto abbiamo parlato d’amore!

Intervistando, studiando, documentando quello che ci succede quando perdiamo la testa, quando non gestiamo il sentimento ma ci lanciamo senza protezione. E come terza tappa? Un mito; un archetipo che possa aiutarci a mettere un punto e virgola in questo viaggio nella fantasia, un aiuto che possa consigliarci se deviare o proseguire il percorso. Medea – una storia d’amore.

C’è una battuta, la seconda detta dalla protagonista, che ogni volta che leggo nella bellissima traduzione di Umberto Albini mi sorprende come un fulmine: 'Soffro, lo capite che soffro?'

E poi, solo in un secondo momento, l’attenzione ricadrà sui figli e sulle maledizioni a loro riservate. Ma prima c’è uno stato d’animo, uno stato d’animo dettato dall’amore. Come se Cipride non avesse risparmiato neppure lei dal gioco dell’amore e del caso: Giasone non ha più attenzione per lei e lei trova il modo di farsi notare, come una bimba che non ha gli sguardi su di sé e quindi distrugge il castello di sabbia che ha appena costruito con tanta fatica, una bimba che si mette a piangere disperata e terrorizzata per la disgrazia da lei stessa generata. Lacrime sulle macerie. La distruzione di un amore.

Medea è conosciuta unicamente come la madre che uccide i figli, la sua azione è talmente indicibile che, come accade anche nella contemporaneità, ha messo in ombra tutto il resto. Ecco dunque che Medea ha smesso di esistere, il nome e la storia sono stati macchiati dall'evento in maniera indelebile. A me interessa quello che c'è stato prima: mi interessa studiare la fotografia di questa donna innamorata, tradita dall'uomo che amava e, infine, abbandonata. 'Soffro, lo capite che soffro?'

Questa esposizione della sofferenza, questo dolore che non riesce a farsi silenzio, questo pianto perenne che non riesce a restare chiuso nel corpo, ma che deve sprigionarsi prima in parole e poi in azioni di sangue. Ho chiesto a Orietta Notari di essere Medea perché è un'attrice straordinaria e capace di raggiungere grandi note di dolcezza. Vorrei vedere in Medea una fanciulla, un animale ferito. Più è fragile e più riuscirà a spaventarmi. Ho rivisto Medea nell'interpretazione di Olivia Colman nella ‘Favorita’ di Yorgos Lanthimos: istinto, nobiltà e follia ma anche amore incondizionato e irrefrenabile. Per amore è disposta a tutto, anche a devastare il suo nome e il suo ricordo.

Non mi piace quando vedo la Grande Medea forte e capace di strategia, con costumi importanti e un trucco forte, mi sembra un pensiero un po' macchiettistico, mi piace vederla attraverso gli occhi dei bambini che parlano così poco, ma che vedono tutto. Una mamma che ama tanto il papà e che piange perché il papà si vuole sposare con una donna più giovane: la principessa. Con Riccardo Baudino, dramaturg, abbiamo convenuto di sostituire la figura di Giasone proprio con la figlia Glauce per mettere in primo piano le relazioni tra persone. Le relazioni dell'amore.

Ed ecco che nelle solitudini della mia fantasia appare un coro di innamorati che chiede attenzione, ecco Vanja, Bernarda Alba, Alceste, Amanda Wingfield e tutti i traditi e gli abbandonati di questo magnifico teatro che sussurrano piano: 'Soffro, lo capite che soffro?'

Nella foto di Luigi De Palma, da sinistra Orietta Notari, Valentina Picello, Nicola Pannelli, Alfonso De Vreese in 'Medea' di Leonardo Lidi

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