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Un Requiem da Aix en Provence per Lissner a Napoli e gli Alpha Centauri che brillano insieme su Milano

 Per fortuna degli spettatori appassionati napoletani, al Teatro San Carlo si possono godere, in questo assurdo maggio, nientemeno che il ‘Requiem’ di Mozart (nelle foto di Luciano Romano) nella versione cult che fu presentata al Festival d’Aix en Provence, quattro anni fa, da Romeo Castellucci per la direzione d’orchestra di Raphaël Pichon, alla guida anche del Coro della raffinata ensemble Pygmalion da lui fondata.

Anche solo per questo, che cosa vorreste mai dire a tutti i De Luca, Fuortes e Sangiuliano, o alla buonanima del criticissimo Paolo, che hanno fatto di tutto per buttar fuori ‘il vecchio’ Sovrintendente Lissner? In bocca al lupo, per chi verrà, se saprà fare una programmazione di pari livello, con chicche del genere.

In ogni caso, per non essere soltanto invidiosi dei napoletani che vanno all’opera, e da anni possono pure frequentare bellissimee mostre d’arte, è soltanto in quella strana, contraddittoria e unica metropoli italiana del post-capitalismo che è Milano, che può capitare persino di vedere da vicino l’Alpha Centauri italiano della cultura europea, come successo nel primo scorcio di maggio, dove Gian Maria Tosatti con la sua mostra alla Fondazione Pirelli Hangar Bicocca incrocia Romeo Castellucci che presentava il progetto speciale per i cent’anni della Triennale, nel Salone d’Onore del palazzo di viale Alemagna.

Sembra tutto inscritto nei nomi, già, anche solo dei luoghi e dei loghi. Per non dire dei titoli, che più understatement internazionale di così non si poteva: ‘NOw/here’ è il gioco di parole, tra rifiuto e accettazione dello spaesamento nel presente, che segna la prima esposizione come pittore di Tosatti; ‘Senza titolo’ è l’indicazione relativa, per quest’ultimo atto di ‘performing art’ che il fondatore della Socìetas Raffaello Sanzio ha voluto lasciare priva d’iscrizione, forse anche in quanto d’occasione, o forse soltanto per estrema fedeltà alla linea post-teatrale che lo ha reso celebre. 

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IL MEGLIO DI MILANO CHE VIENE DA LONTANO

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 Chissà chi ha voluto che brillassero insieme due degli Alpha Centauri più ammirati d’Europa nel cielo di quest’incredibile amata-odiata Milano: di certo giocano tutti, o quasi, fuori casa, i promotori di questo incrocio, non solo Tosatti, che arriva con la gallerista Lia Rumma - guardacaso - da Napoli, dove si è trasferito a vivere, o Castellucci che, com’è noto, fa base nella casa di famiglia a Cesena; anche i curatori e i direttori e i suggeritori di Hangar Bicocca (Vicente Todolì) piuttosto che di Triennale Teatro (Umberto Angelini), piuttosto che di qualunque altra notevole istituzione culturale della nuova Milano da bere cult, rigorosamente ‘vegnan da luntan’, insomma non sono usciti dall’establishment borghese della città. 

 Ma questo sarebbe un altro discorso. Veniamo al nostro immenso Castellucci, ormai una star internazionale (di cui riproduciamo  l’autografo recentissimo, anche per farne salire il valore d’asta, nel caso servisse denaro per questo disgraziato sito). Di fronte a un tale personaggio verrebbe voglia di togliersi qualunque parola di bocca, talmente è difficile stare sul livello di chi si può esprimere sulla sua produzione, a parte lui medesimo, che peraltro fa così bene anche il teorico delle proprie opere. 

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CELINE E KIEFER, O GIORGIONE E REMBRANDT?

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 Per non scendere dalle costellazioni, torniamo al grande Tosatti per notare una curiosità: l’artista del Padiglione Italia all’ultima Biennale d’Arte di Venezia, nonché l’inventore di tante installazioni evento di questi anni in giro per l’Europa, uno che a quaranta e rotti anni si può presentare con un saggio firmato da Anselm Kiefer sul catalogo della sua prima mostra di pittura, ha voluto scrivere personalmente un articolo singolare.

 Recensendo l’allestimento di Castellucci per ‘Resurrezione’, dalla Sinfonia n. 2 di Gustav Mahler, andato in scena al festival di Aix-en-Provence, il 4 luglio del 2022, Tosatti individua un filo rosso che lega lo scrittore maledetto francese Louis Ferdinand Céline, il Maestro (anche suo) Kiefer e lo stesso Castellucci, e lo ha voluto intitolare, nientemeno: ‘Viaggio al termine della Storia. Oltre la lingua per raccontare il destino di una civiltà’.

L’inedito trio sarebbe accumunato, scrive Tosatti, dalla ‘capacità di porsi titanicamente di fronte alla Storia per carpirne il senso profondo’, costruendo ‘un incantesimo linguistico tanto complesso da includere tutte le discipline’.

La citazione

Castellucci ci trascina nei temporali della Storia che tuonano ai confini del castello di carte della nostra Europa, ci mostra l’osceno, precipitandoci, come la pioggia che chiude la sua opera, su un campo dell’oggi che nell’essere così privo di coordinate, nomi, bandiere, non è cronaca, ma disvelamento del segno che la nostra generazione sta incidendo su questa Terra. Nel farlo raggiunge un Graal estetico, andando molto oltre l’orchestrazione equilibrata dei linguaggi. Nell’alchimia della sua partitura totale, ci riconsegna il tempo della realtà. (…) Non c’è più il teatro. La nudità di un’operazione tecnica, banale, contrappuntata con estrema sapienza da una partitura di gesti minimi, azioni quasi invisibili, ma necessarie come ogni singola nota della sinfonia su cui esse danzano, si riproduce nella sua concreta oggettività. Il tempo viene liberato dalle convenzioni, la musica diventa altro da sé, la performance non è più scena, ma diventa incredibilmente reale, e le immagini assumono una forza iconica degna di un Giorgione o, nella luce livida di questo scenario, di un paesaggio invernale di Rembrandt.

Gian Maria Tosatti, dalla rivista della sua Quadriennale di Roma. 
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UN FENOMENO DI DEFINIZIONI E PARAGONI

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Forse ormai Castellucci, invitato molto atteso anche alla prossima Biennale Teatro di Venezia, può tradire soltanto lui le aspettative, talmente sono alte da parte degli addetti ai lavori del teatro e dell’arte. Anche il giudizio è rimandato giusto ai posteri, tale è il livello della fama consolidata dalla sua Societas Raffaello Sanzio, ormai da anni, su scala europea.

Un esempio: il grande critico tedesco Hans-Thies Lehmann, celebre per aver inventato la definizione di teatro ‘post-drammatico’ nel 1999, ha in seguito pubblicato in Germania, nel 2013, un nuovo poderoso lavoro critico su quel che resta della tragedia, intitolato ‘Tragödie und dramatisches Theater’, e riproposto nel 2023 in italiano, a cura di Milena Massalongo, dalla casa editrice Cue press. In sostanza, correggendo un po’ il tiro del precedente, in ‘Tragedia e teatro drammatico’ Lehmann proponeva come chiave di lettura del teatro artistico post-moderno l’aver isolato precisi elementi del tragico al di fuori del tradizionale contesto drammatico. 

 L’elenco dei nomi di riferimento di questa svolta ‘neo-post-tragica’ va dai tedeschi Heine Müller, di cui Lehman è stato uno dei principali studiosi, e Erman Schleef, alla britannica Sarah Kane, e comprende altri nomi ormai da enciclopedia del teatro contemporaneo, come Tadeusz Kantor: di artisti viventi e operanti, tra gli esempi dei fondatori di questa svolta, sono citati soltanto Romeo Castellucci e Jan Fabre. Ma, tanto per dire, ancora giusto a peso, Castellucci è l’unico a cui Lehmann dedica un bell’approfondimento di 4 pagine, a fronte di  due paginette, più o meno striminzite, che si meritano ciascuno degli altri artisti del teatro neo-post-tragico.

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INDESCRIVIBILI FORME DELL'HYBRIS

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Al momento di esporsi in un’analisi personale, con Castellucci il critico tedesco si rifugia nelle citazioni, ammettendo addirittura: ‘Il teorico qui non può fare niente di meglio che cedere il posto all’uomo di scena che pensa. Di fatto, niente coglie il nerbo della tragedia come la formula: ‘passività in forma di hybris’, usata da Castellucci per descrivere il lavoro dell’attore di oggi. Ancora Lehmann sceglie poi di appoggiarsi a ’un’ampia serie di riflessioni che ha accompagnato il mastodontico progetto Tragedia Endogonidia’ e ‘la prassi di un teatro tragico che si sviluppi a partire dai traumi e dall’immaginazione, autogenerantesi come endogone, al di là della convenzione drammatica. Voci sussurrate, cori incomprensibili, bambini, gatti, incursione di rumori fastidiosi, figure che spesso sono quasi nude e ricordano nella loro immobilità il teatro di Bob Wilson, sangue, un capro tragico su un blocco fatto di lettere in modo da ‘scrivere’ con i suoi calci, luce proiettata su tendaggi di garza in cui lo sguardo cerca invano di indovinare forme attraverso il tremolio che disturba la percezione: insomma, è impossibile rendere onore qui alla ricchezza di questa successione di scene e immagini uditive e visive’. Sic. 

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UN TEATRO DELL’AFFEZIONE, NON DELL’EMOZIONE

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 E non è finita: ‘L’intento è arrivare a un teatro dell’affezione [Affektivität], non certo dell’emozione romantica’ scrive ancora Lehmann nel volume appena tradotto da Cue Press: ‘un teatro che sia ‘inumano’ e che non mostri in pratica quasi mai gli uomini presi in uno scambio dialogico, al massimo nell’interazione dei corpi. (…)La tragedia così pensata, separata da ogni coro e quindi senza alcun commento, senza traduzione o spiegazione di ciò che ha luogo nel luogo, si mette a nudo, come un fatto brutale, brutalmente fattuale, restituito con una violenza originaria a malapena sostenibile, esposta proprio dove di solito è vestita e deviata dalla sua ‘messa in trama’. 

 Nei lavori di Castellucci, oltre all’opera di ‘scarnificazione della tragedia tradizionale per estrarne l’osso il più nudo possibile’, Lehmann vede un altro filo conduttore fondamentale: ‘la questione della ‘dimensione comune’ perduta, di una comunità di uomini che non negano il destino che subiscono, ma lo guardano in faccia e lo denunciano in un lamento che può essere articolato anche in un senso politico assolutamente concreto’.

 

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