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Una brava figlia degenerata di Strehler che per i 50 anni in scena si regala il Gabbiano di Irina Brook

Geoffrey Carey con Pamela Villoresi in 'Seagull Dreams, I sogni del gabbiano' di Irina Brook (foto Rosellina Garbo)

 Si vede proprio che Pamela Villoresi, attrice di classe e di chiara fama, ha deciso che era arrivato il tempo di farsi qualche regalo. Il primo è una bella monografia illustrata sui suoi 50 anni di teatro, firmata per La Mongolfiera da Teresa Megale, esimia studiosa e docente che pratica pure il teatro con la compagnia Binario di scambio dell’Università di Firenze.

 Il secondo dono che la Villoresi ha voluto impacchettarsi personalmente, come direttore artistico del Teatro Biondo di Palermo, è stata la produzione di ’Seagull dreams - I sogni del gabbiano’, ispirato al classico cechoviano e firmato da Irina Brook, da qualche stagione autrice regista di successo anche in Italia (nel ’24 tornerà alla Scala di Milano con ‘La Rondine’ di Puccini). 

 Chi ha visto lo spettacolo, che è ritornato in tournée quest’autunno-inverno, dopo la prima palermitana e varie repliche della primavera scorsa, sa quanto si sia messa in gioco, l’attrice e in questo caso pure la donna Pamela Villoresi.

Il primo gennaio prossimo soffierà su una selva di 67 candeline, ma si cala come se niente fosse nei panni di un’Arkàdina cechoviana che vorrebbe ancora poter sedurre come un tempo e anche, propriamente, dell’insegnante di recitazione, nevrotica e però comprensiva, della compagnia di giovani allievi del Teatro Biondo chiamati a questa sorta di saggio di fine accademia.

 In uno dei controfinali, addirittura, da Arkàdina a Pamela passa in un attimo pure a se stessa dei tempi d’oro, che indossa il velo nero e recita un pezzetto di una tragicissima ‘Medea’. Lei che, pure nel pieno di una carriera teatrale, di figli ne ha allevati tre, di cui una adottiva...

 Anche alla prima della tappa milanese di ’Seagull dreams - I sogni del gabbiano’, questo mettersi così in gioco della Villoresi sembra esser stato apprezzato molto, tra il pubblico accorso all’Elfo Puccini, sala Shakespeare (dov'è in cartellone fino al 3.12).

Per gli incroci del destino, parliamo di un teatro che ha sempre voluto rimarcare una sorta di alterità anti-borghese e punk nella Milano del canone strehleriano. E peraltro, al Piccolo Teatro si è formata la stessa Villoresi, che il Maestro vantava d'aver addirittura plasmato con le sue stesse mani. 

 Tanto per dire, nel 1982, quando Pamela andò a fare Desdemona per un nuovo 'Otello' di Vittorio Gassman (nuovo perché viene sempre citato il precedente memorabile del 1956 con Salvo Randone), Giorgio Strehler le scrisse una letterina di richiamo, in cui l’apostrofava come ‘figlia degenerata’, affettuosamente, perché ne aveva bisogno a Milano per l’ardua sfida di allestire ‘Minna von Barnhelm, ossia La fortuna del soldato’ di Gotthold Ephraim Lessing (2).

 Venendo ai sogni di oggi, anche in questo caso c’è tanto teatro nel teatro di Irina Brook, inevitabilmente, insieme con una sorta di morale post-hippie presentata con corpose citazioni del guru anni Sessanta Ram Dass, ossia lo psicologo statunitense Richard Alpert, tra filosofie orientali e culture psichedeliche. A quel clima e quel mondo s’ispira l’altra figura chiave, oltre alla Villoresi, del racconto di Irina Brook, lo zio Sòrin, perfettamente interpretato da Geoffrey Carey

 Certo, lo spettacolo è sconsigliato ai fanatici di Čechov, a quelli che amano le versioni più tradizionali dei grandi classici, e pure, paradossalmente, anche ai puristi della sottrazione, che vorrebbero sempre vedere applicate le idee guida di Peter Brook.

Volendo, il teatro è un po’ anche tradimento del testo, per definizione, e per quanto riguarda la questione del padre nella nostra società occidentale matura, parlano chiaro una montagna di libri e di spettacoli, per non dire proprio dei boomers, generazione forte/debole alla quale appartiene la stessa Irina.

  ’Seagull dreams’ si presenta fin dall’inizio, con grande onestà, per quello che è e vuole essere, persino l’introduzione dei freudiani Sogni nel titolo suggerisce come vuole affrontare il tema. E c’è un passaggio dove non resta nell’inconscio di Irina il bisogno di differenziarsi non solo dal teatro del padre ma da tutto il filone neo-post-brechtiano che domina la scena contemporanea più attualizzata e attualizzante, e ha in Milo Rau sicuramente un punto di riferimento. 

 Nel mettere a tema così platealmente le fragilità umane che si nascondono nelle vite del teatro, c’è anche il grande pregio di farlo con dichiarato amore, ed è sicuramente merito di una davvero consonante interpretazione della Villoresi, anima e corpo, generosa anche sopra le righe, a cui fa il paio, come si è detto, il grande tocco sornione di Carey. 

 Nel considerare la prestazione, facevano notare diversi amici e fan della Villoresi stessa, attendendola nell’atrio per i complimenti di rito, che per Carey sicuramente è stato un gioco naturale recitare se stesso in anglo-italiano, mentre per Pamela era una bella impresa, più di un salto di idioma, provare a esprimersi bene in un teatro diverso e succedaneo rispetto a quello in cui si è formata. 

 Tutto il gruppo degli allievi del Teatro Biondo s’impegna con promettente passione, bravi tutti. Anche se, poi, certo, si notano al volo, per quel non so che di sano distacco, forse favorito anche dai ruoli minori e dai personaggi più simpatici, i ragazzi che sono riusciti meglio a mettersi a registro e a non lasciarsi sopraffare da cotante impegnative personalità, a partire da quelle dell'autrice-regista e dell’attrice-direttrice. 

 Chissà se alla fine hanno tutti introiettato la frase emblematica con cui in scena dovrebbero elaborare il lutto per il suicidio di Kostia: ‘If one has found one’s way in the morning, one can gladly die in the evening’. Se si è trovata la strada al mattino, si può morire volentieri la sera: non è in fondo anche quel che dovrebbe succedere di pensare anche all’attore, dopo ogni recita indovinata?  

Irina Brook dirige le prove di 'Seagull dreams' (foto Rosellina Garbo)

(1) Scheda di presentazione dal sito del Teatro Biondo

 La regista Irina Brook, figlia del maestro Peter Brook e dell’attrice Natasha Parry, esplora in questo spettacolo la propria biografia di figlia d’arte attraverso le parole di Anton Čechov. I temi e le atmosfere del teatro checoviano riaffiorano dal vissuto personale della regista, la cui mamma era di origini lettoni-russe, come anche l’atmosfera inglese e americana degli anni ’70, quella dei suoi anni di giovane attrice: la malinconia per epoche che tramontano e la tensione verso qualcosa che deve ancora nascere e che fatica ad imporsi: l’eterno conflitto tra giovani artisti e vecchie glorie.

 Con ‘Seagull Dreams’, Irina Brook porta avanti la sua intensa ed emozionate riflessione sul teatro, inteso come laboratorio dei sentimenti e della vita; come palcoscenico delle dinamiche di una famiglia di attrici e drammaturghi, di una compagnia. Pamela Villoresi nel ruolo di Arkadina (a sua volta attrice e madre) e Geoffrey Carey nei panni di Sorin – che porta in scena tutto il mondo anglosassone di Irina, lingua compresa – rappresentano appunto anche se stessi, mettendo in gioco il loro vissuto che si intreccia con quello dei personaggi. E così i giovani, che provengono dalla Scuola del Biondo, narrano con Čechov le loro aspettative, le frustrazioni e i sogni che animano i loro primi passi nel mondo teatrale.

 ‘Seagull Dreams’, prendendo spunto da Il gabbiano di Čechov, vuole raccontare l’essenza stessa del teatro, le fatiche, gli errori, le paure di chi lo fa. Irina Brook non vuole più fare solo teatro in palcoscenico: cerca nuove forme che portino in scena la vita reale. In tal senso lo spettacolo si collega al progetto ‘The House of Us’, che la regista inglese ha avviato a Palermo lo scorso anno. Lavorando con i giovani allievi della Scuola di recitazione e professioni della scena, Brook ha realizzato un suggestivo percorso performativo sovrapponendo il ricordo della madre e il proprio controverso rapporto con la recitazione e il teatro.

 Alcuni brani del repertorio checoviano si intersecavano con pagine autobiografiche e con una riflessione sulle relazioni interpersonali nell’epoca in cui la pandemia ci ha costretti all’isolamento forzato. Con l’aiuto dei giovani allievi del Biondo, Irina Brook ha iniziato a tracciare una mappa ideale del teatro prossimo venturo. Per questo la regista trasporta la vicenda de ‘Il gabbiano’ in un contesto realistico – dagli anni ’70 ai giorni nostri proiettati verso una metarealtà – mischiando i ricordi personali e le esperienze di vita degli interpreti alle aspirazioni e ai desideri della nuova generazione di giovani attori e attrici: la passione per il palcoscenico, l’impegno, il gioco, il desiderio di proiettare la vocazione teatrale nel futuro, includendo le nuove tecnologie, ma anche le umiliazioni, le incertezze, il nomadismo, perché qualunque cosa accada, donne e uomini di teatro saranno comunque… on the road again.

(2) Strehler stesso scrisse nelle note di regia del programma di sala: ‘è uno spettacolo, inconsueto, difficile, sconvolgente, misterioso (potrei aggiungere aggettivi ad aggettivi) anche sotto la sua apparente semplicità. Ci ha richiesto uno sforzo molto grande, ci lascia infinite perplessità anche se siamo certi di avere compiuto una indagine viva, critica e sensibile, che è diventata teatro per la gente e non saggio letterario fermo sulle pagine di un libro.

 Commedia “comica”, tragedia comica, dramma del passaggio storico di un mondo vecchio che sta chiudendosi e di un altro che si apre, dramma d’amore (e certamente in una grande misura lo è) non ancor più dramma “dell’amore”, dei rapporti d’amore e di non amore tra l’essere maschile e l’essere femminile, è tutto questo insieme, Minna von Barnhelm? O altro ancora?’

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